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Allo studio un probiotico “ambientale” contro le infezioni ospedaliere

Secondo uno studio italiano, un piano di intervento igienico basato sull’uso di probiotici e non sostanze chimiche permette di ridurre le infezioni ospedaliere.
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Allo studio un probiotico “ambientale” contro le infezioni ospedaliere

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Implementare un piano di intervento igienico basato sull’uso di un probiotico, Bacillus in questo caso, anziché su sostanze chimiche permette di ridurre considerevolmente le infezioni contratte in ambito ospedaliero.

È quanto emerge dallo studio tutto italiano coordinato da Elisabetta Caselli, docente dell’Università degli Studi di Ferrara, e di recente pubblicato su PLOS ONE.

Infezioni ospedaliere, un problema emergente

Le “infezioni associate alle cure” o HAI è un problema di vasta portata andando a coinvolgere circa il 15 % di tutti i pazienti ospedalizzati.

Le strategie di igienizzazione utilizzate più di frequente si basano su prodotti chimici che, oltre ad impattare notevolmente sull’ambiente, presentano anche molte limitazioni d’efficacia tra le quali l’incapacità di prevenire la ri-contaminazione e, di contro, contribuire a creare patogeni sempre più resistenti anche a prodotti antibiotici nel caso si tratti di batteri.

Di recente è stato però sperimentato un approccio di “pulizia” alternativo basato sull’idea che, piuttosto di andare a eradicare tutti i patogeni, sarebbe più utile andare a sostituirli con altri microorganismi “buoni” puntando anche alla prevenzione di futuri contagi.

In linea con questo pensiero, sono stati dunque creati detergenti contenenti spore del probiotico Bacillus dando l’avvio al “Probiotic Cleaning Hygiene System” o PCHS.

Dai primi test condotti con questi nuovi prodotti è stato visto come siano sicuri per i pazienti, in grado di ridurre la conta dei patogeni fino al 90% in più dei comuni detergenti senza per altro creare resistenza e riducendo nel complesso i costi sanitari.

Quello che i ricercatori hanno voluto verificare con questo lavoro è stato quindi l’impatto che l’approccio PCHS abbia nei confronti delle HAI andandone a misurare l’eventuale variazione di incidenza. Sono state inoltre valutate le caratteristiche qualitative e quantitative dei microrganismi riscontrati nelle superfici ospedaliere testate (pavimento, ai piedi del letto, lavandini).

Sono stati perciò coinvolti sei diversi ospedali italiani distribuiti nel territorio nazionale (Feltre, Roma, Foggia, Vigevano e Tolmezzo) confrontandoli con una struttura di controllo (Messina) nella quale non è stato prevista alcuna misura di intervento.

Nello specifico, lo studio ha coinvolto un totale di 11.842 pazienti e si è suddiviso in una fase pre-intervento della durata di 6 mesi, ovvero un periodo nel quale sono state monitorate le HAI con il trattamento igienico standard, e una fase di post-intervento di analoga estensione (6 mesi) con l’introduzione di PCHS.

Ecco dunque cos’è emerso.

  • L’incidenza cumulativa di infezioni associate alle cure (pazienti con HAI/totale di pazienti arruolati) è significativamente diminuita in seguito all’introduzione di PCHS in tutti gli ospedali di intervento passando dal 4.8% al 2.3%
  • Il tasso di incidenza di HAI per 1.000 pazienti con PCHS è passato da 5.4 a 2.4
  • Nessun cambiamento è stato osservato al termine dello studio nella struttura ospedaliera di controllo
  • Le analisi bimensili relative all’incidenza di HAI mostrano una condizione stabile delle stesse nella fase pre-intervento contrapposta a un decremento lineare in quella post PCHS

Tra tutte le infezioni ospedaliere quelle più frequenti riguardano generalmente il tratto urinario seguite da quelle sanguigne, sepsi sistemiche, gastrointestinale, cutanee e respiratorie.

Complessivamente la loro incidenza cumulativa in seguito a PCHS ha mostrato una buona riduzione. In particolare:

  • Le infezioni del tratto urinario sono scese da 3% a 1.2%
  • Le infezioni ematiche dallo 0.9% al 0.6%
  • Sepsi dallo 0.4% allo 0.1%
  • Le infezioni gastrointestinali e cutanee dallo 0.3% allo 0.1%

Analogamente, il numero di HAI associate a microrganismi è passato da 332 della fase pre-intervento a 137 in quella post-PCHS mentre la percentuale relativa dei batteri isolati si è dimostrata pressoché inalterata. E. coli, E. faecalis, S. aureus, P. mirabilis e P. aeruginosa sono infatti risultati nel complesso i ceppi più frequenti.

Di contro, nessuna HAI è stata imputata al probiotico usato nell’intervento (Bacillus) confermandone il profilo di sicurezza già evidenziato in studi precedenti.

Da ultimo, è stato valutato l’impatto dell’intervento con PCHS sul microbiota delle superfici ospedaliere analizzate. Nella fase pre- è emersa una contaminazione persistente e pari a 22.737 CFU/m2, attribuibile in particolar modo a Staphylococcal, ampiamente ridotta dall’utilizzo di PCHS nella fase post- facendo registrare una conta batterica totale di soli 4.632 CFU/m2.

Inoltre, l’ipotesi di partenza di andare a sostituire i patogeni con altri batteri buoni ha trovato conferma. La percentuale di espressione di Bacillus nelle superfici testate è passata infatti dallo 0% del pre-intervento al 69% nel post dimostrando inoltre un buon livello di stabilità non sviluppando alcun gene di resistenza.  

Conclusioni

Tra le limitazioni sottolineate dagli stessi autori troviamo però l’aver condotto entrambe le fasi nei medesimi ospedali, l’aver incluso solo determinati reparti, non aver potuto apprezzare il contributo della stagionalità di alcune infezioni vista la durata di ogni singola fase e l’aver condotto le analisi considerando il campione complessivo e non per singolo ospedale.

Questo studio tuttavia, essendo anche il primo nel suo genere, offre validi spunti di riflessione sul ruolo che la componente batterica possa giocare non solo in relazione diretta con l’ospite ma anche con l’intero ambiente che ci circonda.

L’approccio di igiene ospedaliero basato su prodotti contenenti probiotici anziché sostanze chimiche sembrerebbe dunque il candidato ideale per assicurare la salute del paziente a tutto tondo

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