In ginecologia, uno dei principali campi di interesse degli ultimi dieci anni è stato lo studio della correlazione tra il microbiota e i tumori femminili. In particolar modo, si è cercato di capire quale correlazione ci fosse tra le alterazioni del microbiota cervico-vaginale, l’HPV e quindi il tumore del collo dell’utero.
Recenti metanalisi hanno mostrato come le disbiosi a livello vaginale rappresentano un fattore significativo di rischio sia per l’acquisizione del virus del papilloma virus, sia per la sua persistenza a livello cervico-vaginale, sia per la progressione in lesioni displastiche e in carcinomi invasivi. Il problema però è che bisogna cercare di capire tramite studi clinici, oltre che preclinici, cosa si intende per disbiosi e rischio di acquisizione del papilloma virus. Disbiosi, infatti, è un termine molto vago. Può significare riduzione della flora lattobacillare, incremento del pH a livello vaginale, aumenti di altri microrganismi aerobi o anaerobi che non producono acido lattico e può indicare una vaginosi batterica. Quindi una serie di diverse forme cliniche che possono facilitare l’acquisizione e la progressione dell’HPV, a cui si aggiungono gli eventi cosiddetti co-infettivi, ad esempio Chlamydia trachomatis, che potrebbero rappresentare un fattore predisponente e favorente sia all’acquisizione, sia alla progressione del virus.
E tutto questo come si traduce nella pratica clinica nei riguardi della paziente? Lo abbiamo chiesto a Francesco De Seta, ginecologo del Burlo Garofolo di Trieste, durante la decima edizione del congresso Probiotics, prebiotics & new foods tenutosi a Roma.