La malattia di Crohn è una condizione infiammatoria cronica caratterizzata da disbiosi intestinale che può portare a complicanze intestinali.
Un recente studio coordinato da Sylvie Buffet-Bataillon ha dimostrato un legame tra il peggioramento dei sintomi e i progressivi cambiamenti del microbiota intestinale nei pazienti affetti da questo disturbo.
Lo studio, pubblicato su Scientific Reports, suggerisce che la valutazione della disbiosi potrebbe favorire l’ottimizzazione dei trattamenti.
Tre profili microbici
Per caratterizzare l’eterogeneità del microbiota nei pazienti con malattia di Crohn, i ricercatori dell’Università di Rennes hanno eseguito il sequenziamento genomico di campioni fecali ottenuti da 259 pazienti.
In base ai risultati ottenuti, i ricercatori hanno identificato tre diversi profili del microbiota, vale a dire G1 (normobiosi), G2 e G3 (disbiosi). In particolare, hanno osservato una progressiva diminuzione della diversità delle specie nella transizione da G1 a G3, nonché cambiamenti nella proporzione dei proteobatteri.
Come riportato in altri studi, la disbiosi è risultata caratterizzata dalla riduzione dei batteri produttori di SCFA del phylum Firmicutes e dall’aumento dei proteobatteri.
Non sono stati invece osservati cambiamenti nei livelli di calprotectina fecale (FC), un marcatore non invasivo standard utilizzato per valutare l’attività della malattia.
Microbiota e gravità dei sintomi nel Crohn
I ricercatori hanno poi analizzato i campioni fecali raccolti da un sottogruppo di 41 pazienti e hanno rilevato un’associazione tra la composizione del microbiota e la sintomatologia.
È stato riscontrato infatti che la gravità dei sintomi aumenta da G1 a G3: G1 è associato a casi di remissione, G2 a remissione e sintomi “lievi-moderati”, mentre G3 a sintomi gravi. Analizzando campioni fecali raccolti nel corso del tempo, i ricercatori hanno inoltre scoperto che il miglioramento dei sintomi è associato alla stabilità del microbiota oppure alla transizione da G3 a G2 o da G2 a G1.
Pertanto, queste transizioni tra i diversi profili del microbiota potrebbero essere indicatori chiave dell’evoluzione della malattia nel tempo.
Firme microbiche per predire l’evoluzione della malattia
Il team ha quindi studiato la differenza tra i profili G1, G2 e G3 e ha scoperto che il primo segno di peggioramento (transizione da G1 a G2) è dovuto a una perdita dei principali batteri produttori di SCFA Roseburia, Eubacterium, Subdoligranum e Ruminococcus, noti per promuovere la risposta antinfiammatoria delle principali cellule immunitarie dell’intestino.
Inoltre, è stato osservato un aumento dei patogeni pro-infiammatori Proteus e Finegoldia, nonché di batteri che producono in misura minore SCFA (Ezakiella, Anaerococcus, Megasphaera, Anaeroglobus e Fenollaria).
L’ulteriore aggravamento dei segni clinici (passaggio da G2 a G3) è risultato associato a una perdita importante dei batteri che producono in misura minore SCFA e a un aumento di altri batteri pro-infiammatori come Klebsiella, Pseudomonas, Salmonella, Acinetobacter, Hafnia e di generi pro-infiammatori appartenenti al phylum Firmicutes, come Staphylococcus, Enterococcus e Streptococcus.
Conclusioni
Non è noto se i trattamenti sono, o saranno, in grado di invertire o arrestare la progressione della disbiosi, ma lo studio suggerisce che la produzione di SCFA sia associata a un ripristino dell’omeostasi intestinale e a una remissione prolungata nei pazienti con malattia di Crohn. Pertanto, le terapie basate sui batteri produttori di SCFA potrebbero essere utili per indurre e mantenere la remissione della malattia o per prevenire le ricadute dopo l’intervento chirurgico.
«Infine, i dati ottenuti sui cambiamenti del microbiota potrebbero fornire informazioni utili per il trapianto di microbiota fecale personalizzato (FMT), che si è già dimostrato efficace nel mantenere la remissione nei pazienti con malattia di Crohn», concludono i ricercatori.