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Il microbiota intestinale è la chiave di volta nel controllo del peso

Più che l’apporto di fibre, è il microbiota intestinale a influenzare il peso. Lo dimostra uno studio statunitense effettuato su animali.
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Stato dell’arte
La dieta è il principale fattore che influenza il microbiota intestinale. Quella occidentale in particolare ha mostrato di ridurre la diversità batterica in quanto povera di fibre. Il legame tra composizione del microbioma, riduzione dell’apporto di fibre e aumento di peso non è stato tuttavia ancora del tutto compreso.

Cosa aggiunge questo studio
Scopo dello studio è approfondire la relazione tra microbioma intestinale, fibre e peso. Per farlo, il microbiota intestinale di primati non umani (Pygathrix nemaeus) cresciuti in cattività o nel loro naturale habitat (selvatici) è stato trapiantato in modelli murini germ-free successivamente alimentati con dieta a elevato o scarso contenuto di fibre.

Conclusioni
Il microbiota del gruppo in cattività, simile a quello di individui con dieta occidentale, promuove l’aumento ponderale indipendentemente dall’apporto di fibre. Di contro, il microbiota da animali selvatici previene parzialmente questa condizione anche con scarso consumo di fibre. Le fluttuazioni di peso sembrerebbero quindi esser più correlate alla componente batterica che al contenuto di fibre nella dieta.


Più che l’apporto di fibre, sembrerebbe essere il microbiota intestinale a influenzare il peso. Modelli murini germ-free riceventi trapianto fecale da primati non umani selvatici hanno mostrato un minor aumento di peso nonostante la dieta a scarso contenuto di fibre rispetto ai riceventi da esemplari cresciuti in cattività indipendentemente dal loro regime alimentare.

Se questi risultati saranno confermati nell’uomo, manipolare la componente batterica potrebbe quindi essere una valida strategia nel ridurre le problematiche di sovrappeso-obesità.

È quanto dimostra lo studio di Dimitrios N. Sidiropoulos e colleghi della University of Minnesota (USA) pubblicato recentemente su Animal Microbiome.

Dieta dimagrante? Dipende…

A influenzare maggiormente la componente batterica è la dieta. Quella occidentale, con uno scarso apporto di fibre, ma ricca di grassi e zuccheri, ha mostrato un’associazione positiva con situazioni di obesità, perdita di alcuni taxa batterici con, di contro, aumentata espressione di Bacteroidetes. Il legame tra cambiamenti batterici, aumento di peso e introito di fibre rimane però ancora poco chiaro.

Primati non umani selvatici o cresciuti in cattività rappresentano un modello adatto per lo studio di queste associazioni con una potenziale trasferibilità nell’uomo. Tra questi, il langur duca (Pygathrix nemaeus) in particolare considerandone il suo inusuale apporto. Di contro, in cattività il consumo di fibre si riduce notevolmente analogamente a individui con regime alimentare occidentale. Similitudini sono inoltre state registrate a livello batterico.

Dopo aver collezionato campioni fecali da scimmie selvatiche (WD, n=4) o in cattività (CD, n=2) e averlo trapiantato in modelli murini germ-free (n=32), i ricercatori hanno alimentato questi ultimi con una dieta ad alto o scarso contenuto di fibre per 50 giorni. Incrociando dieta e donatore sono stati quindi ottenuti 4 gruppi di studio ossia “cattività-molte fibre” (CH), “cattività-poche fibre” (CL), “selvatico-molte fibre” (WH) e “selvatico-poche fibre” (WL).

Il ruolo del microbiota intestinale nell’aumento del peso

Di seguito i risultati ottenuti dal confronto del peso e profilo batterico dei differenti gruppi.

  • Il gruppo WH non ha registrato un significativo aumento di peso al termine dello studio rispetto alla condizione di partenza prima del trapianto. Di contro, il gruppo CL ha mostrato l’aumento ponderale più consistente. L’analisi statistica (Two-way ANOVA) ha inoltre sottolineato come il trapianto e quindi il microbiota, più che la dieta, sia il fattore più impattante sul peso
  • la ricchezza batterica si è in genere ridotta nel tempo eccetto che per il gruppo WH nel quale ha mantenuto livelli costanti
  • indipendentemente dal donatore, i gruppi con ridotto apporto di fibre (WL e CL) hanno registrato la maggiore alpha-diversity, conta di OTUs e specie batteriche rispetto alla controparte CH e WH
  • ogni gruppo ha mostrato nette differenze (cluster) in termini di beta-diversity per la maggior parte imputabili al donatore che alla dieta
  • confrontando il microbiota dei donatori e riceventi, analogie sono state dimostrate solo tra i donatori in cattività e i rispettivi riceventi nonostante la procedura di trapianto sia stata la stessa per tutti
  • significative differenze nella composizione batterica fra i gruppi. I riceventi da donatori in cattività hanno infatti mostrato una maggiore abbondanza relativa di Bacteroidetes, quelli da donatori selvatici invece di Firmicutes con conseguente maggiore rapporto anche di Firmicutes:Bacteroidetes
  • differenze anche in base alla dieta. Il gruppo WH ha registrato infatti un’abbondanza significativamente maggiore di Coprococcus, Clostridium, SMB53, Bacillus e Actinotalea; quello WL di Caloramator e Paenibacillus; CH di Akkermansia e Turicibacter; CL infine di Bacteroides, Desulfovibrio e Roseburia. Enterococcus e Lactococcus hanno invece mostrato una espressione più elevata nei gruppi con maggior apporto di fibre indipendentemente dal microbiota dei donatori
  • il gruppo WH ha mostrato una certa stabilità tassonomica nel tempo (1° vs sesta settimana). Di contro, WL ha dimostrato un incremento di Coprococcus (p = 0.003) associato a un decremento di Enterococcus (p = 0.004), Epulopiscium (p =0.008), Lactococcus (p = 0.007), Clostridium (p = 0.001, FDR adjusted) e Paenibacillus (p = 0.016); il gruppo CH ha invece mostrato un aumento di Turicibacter (p = 3.48e-07) e una diminuzione di Coprococcus (p = 0.004). Il genere Desulfovibrio (p = 0.002) è infine risultato aumentato nel gruppo CL, diminuzione invece di Pseudoramibacter Eubacterium (p = 0.0002)

Alle fluttuazioni ponderali e di microbioma i ricercatori hanno associato il monitoraggio delle citochine sieriche per valutare l’eventuale contributo dello stato infiammatorio dimostrando che:

  • il gruppo WH ha livelli di citochine significativamente maggiori rispetto al gruppo CH, IL-9, IL-12(P40), IL-13, MCP-1, MIP-1B, MKC e RANTES in particolare. Valori maggiori anche di TNF-α se comparato a WL e CL, non di CH
  • I livelli di IL1A sono risultati particolarmente elevati nel gruppo CL rispetto ai WL
  • tutti i riceventi da donatori in cattività (CH e CL) hanno registrato valori significativamente inferiori di IL-12(P40)

Considerando come le citochine maggiormente espresse dal gruppo WH siano sia pro- sia anti-infiammatorie, il legame tra microbioma “da cattività” e aumento di peso non sembrerebbe quindi esser mediato principalmente dall’infiammazione.

Conclusioni

In conclusione dunque, il microbiota espresso in cattività e simile a quello di individui in dieta occidentale promuove l’aumento di peso a prescindere dal successivo apporto di fibre.

Di contro, ceppi maggiormente espressi in donatori selvatici come Coprococcus, SMB53 e Bacillus, Actinotalea, e Clostridium hanno dimostrato di prevenire questa condizione in combinazione con un alto introito di fibre.

Manipolare opportunamente il microbiota di soggetti a rischio di obesità sembrerebbe essere quindi una valida alternativa.

Silvia Radrezza
Laureata in Farmacia presso l’Univ. degli Studi di Ferrara, consegue un Master di 1° livello in Ricerca Clinica all’ Univ. degli Studi di Milano. Borsista all’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS dal 2017 al 2018, è ora post-doc presso Max Planck Institute of Molecular Cell Biology and Genetics a Dresda (Germania).

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