Quando i probiotici fanno i conti: 10 miliardi di risparmi per l’Europa

La sala conferenze di Bruxelles è diventata insolitamente silenziosa quando Mike Holland ha proiettato un numero semplice sullo schermo: oltre 10 miliardi di euro l’anno. Non si trattava delle dimensioni del mercato dei probiotici nell’UE, né degli investimenti in ricerca e sviluppo: era la stima dei potenziali risparmi annuali in spesa sanitaria e produttività se i probiotici venissero utilizzati più ampiamente come strumenti di prevenzione in tutta Europa.

Per la prima volta, i probiotici – a lungo relegati nella zona grigia tra alimento e medicinale – sono stati sottoposti allo stesso tipo di scrutinio socio-economico che le istituzioni europee riservano di solito all’inquinamento atmosferico o alle sostanze chimiche pericolose. Il risultato è una completa Valutazione di Impatto Socio-Economico (Socio-Economic Impact Assessment, SEA) commissionata da IPA Europe e realizzata da Rud Pedersen Public Affairs insieme a Holland, consulente che da decenni valuta gli impatti sanitari ed economici delle scelte di policy per la Commissione europea, l’Agenzia europea dell’ambiente e l’OCSE.

Dal beneficio clinico al valore economico

L’incontro di Bruxelles è stato strutturato in due atti. Prima è arrivata la scienza. L’immunologo olandese Ger T. Rijkers ha guidato il pubblico attraverso un’analisi globale dei trial clinici sui probiotici: 504 studi, 73.558 pazienti e 405 diversi parametri di esito.

Quando questi studi sono stati analizzati usando una definizione rigorosa di successo – un miglioramento significativo in almeno un endpoint clinico predefinito e un parallelo guadagno nella qualità di vita riferita dal paziente – il quadro è risultato chiaro: nelle indicazioni metaboliche, gastrointestinali e in altre aree, i probiotici hanno regolarmente conferito benefici di salute misurabili. La maggior parte degli studi ha utilizzato ceppi ben noti come Lactobacillus rhamnosus GG e Bifidobacterium animalis BB-12, ma è emerso anche un crescente corpo di dati su formulazioni multi-ceppo.

In altre parole, il razionale biologico e clinico a favore dei probiotici non è più l’anello debole. Negli ultimi due decenni, la ricerca sul microbioma ha mostrato come i microrganismi vivi possano modulare le risposte immunitarie, ripristinare l’equilibrio microbico dopo l’uso di antibiotici, influenzare la digestione del lattosio, supportare la salute orale e vaginale e persino incidere sul benessere mentale attraverso l’asse intestino-cervello.

La vera novità a Bruxelles è arrivata con il secondo atto: il tentativo di Holland di tradurre quegli effetti clinici in “euro sonanti”, usando la metodologia di Better Regulation dell’UE e il System of Health Accounts dell’OCSE.

Sette condizioni comuni, un conto molto salato

La SEA si concentra su sette ambiti in cui le evidenze scientifiche dei benefici dei probiotici sono solide e in cui il burden di malattia in Europa è sostanziale:

  • diarrea associata ad antibiotici (antibiotic-associated diarrhoea, AAD) e ripristino del microbiota intestinale dopo l’uso di antibiotici
  • infezioni delle vie respiratorie superiori (URTI, perlopiù comuni raffreddori e influenze)
  • salute orale
  • salute riproduttiva femminile, in particolare vaginosi batterica
  • intolleranza al lattosio
  • salute mentale tramite l’asse microbiota-intestino-cervello
  • funzione intestinale, con enfasi sulla stipsi negli anziani.

Per ciascuna di queste aree, il team ha mappato tre elementi: quante persone sono coinvolte nell’UE, che cosa i probiotici possono realisticamente cambiare (incidenza, gravità, durata dei sintomi) e quanto valgono questi cambiamenti quando si sommano i costi sanitari diretti, le perdite di produttività e, ove possibile, i costi intangibili come la riduzione della qualità di vita.

Laddove erano disponibili robuste “funzioni di risposta” – riduzioni del rischio relativo o odds ratio da meta-analisi – il team le ha utilizzate direttamente. Dove la letteratura era più scarsa, ha modellizzato l’impatto di un miglioramento molto modesto, pari all’1% del burden di malattia, proprio perché è una cifra facile da scalare e conservativa rispetto a molti degli effetti clinici osservati.

Anche partendo da queste ipotesi prudenti, i numeri sono impressionanti.

Da dove arrivano i risparmi

Prendiamo la diarrea associata ad antibiotici, una complicanza frequente della terapia antibiotica sistemica. L’AAD non causa solo disagio e un recupero più lungo per i pazienti; in ospedale genera ulteriori esami di laboratorio, farmaci aggiuntivi, misure di isolamento, degenze prolungate e, nei casi causati da Clostridioides difficile, occasionali ricoveri in terapia intensiva.

Sulla base di dati europei, Holland stima che le infezioni da C. difficile da sole costino circa 3,2 miliardi di euro l’anno in spesa sanitaria diretta. Quando si considerano anche le altre cause di AAD, il burden totale si avvicina a 16 miliardi di euro all’anno. La somministrazione di probiotici in associazione agli antibiotici ha dimostrato di ridurre il rischio di AAD del 37% negli adulti e del 53% nei bambini. Applicando queste dimensioni di effetto, il modello suggerisce che un uso profilattico più ampio di probiotici potrebbe generare risparmi compresi tra 1,2 e 1,7 miliardi di euro l’anno per l’AAD da C. difficile e tra 5,9 e 8,5 miliardi di euro quando si considerano tutti i casi di AAD.

Un secondo esempio riguarda la salute respiratoria. Le infezioni delle vie respiratorie superiori sono così comuni che vengono spesso liquidate come banali, eppure generano un conto consistente in visite dal medico di base, prescrizioni e, soprattutto, giornate di lavoro perse. Per i 27 Stati membri dell’UE, la SEA stima i costi sanitari diretti delle URTI intorno a 57 miliardi di euro l’anno, con perdite di produttività che oscillano tra 61 e 349 miliardi di euro a seconda delle ipotesi considerate.

In questo caso, il team di Holland ha fatto riferimento ai precedenti modelli elaborati da Lenoir-Wijnkoop e colleghi in Francia. Proiettati all’insieme dell’UE, e considerando solo i pazienti che effettivamente consultano un medico (circa un terzo dei casi di influenza e appena l’1% dei comuni raffreddori), l’uso preventivo di probiotici potrebbe generare risparmi tra 1,1 e 3,9 miliardi di euro all’anno in termini combinati di costi sanitari e produttività. Quando si considera l’intero burden delle infezioni respiratorie, ogni miglioramento dell’1% nella salute respiratoria attribuibile ai probiotici corrisponde a un beneficio economico compreso tra 1,2 e 4,1 miliardi di euro l’anno.

Il quadro è simile per la funzione intestinale. La stipsi colpisce fino al 42% degli anziani istituzionalizzati nelle strutture di assistenza a lungo termine, con chiare implicazioni sulla qualità di vita e sul carico di lavoro del personale. In questo contesto specifico, la SEA stima costi di base pari a 3,8 miliardi di euro l’anno in farmaci e tempo infermieristico. I dati clinici che indicano una riduzione del 28% degli episodi di stipsi con l’uso di probiotici si traducono in potenziali risparmi di circa 1,4 miliardi di euro l’anno, senza nemmeno conteggiare i benefici negli anziani che vivono al domicilio o negli adulti in età lavorativa.

Per l’intolleranza al lattosio, il modello assume che gli alimenti probiotici possano ridurre i sintomi di circa il 50%, consentendo così a molte persone di consumare latticini senza discomfort. Considerando gli effetti a cascata su qualità della dieta, salute ossea e produttività, il beneficio stimato per il lavoro retribuito e non retribuito si attesta tra 7 e 9,5 miliardi di euro l’anno.

In ambito di salute femminile, l’aggiunta di probiotici al trattamento standard per la vaginosi batterica è stimata in grado di migliorare i tassi di guarigione al primo ciclo terapeutico dal 48% all’83%. Si tratta di un cambiamento rilevante, perché la BV è associata a parto pretermine, maggiore suscettibilità alle infezioni sessualmente trasmesse e malattia infiammatoria pelvica. Nell’insieme dell’UE, portare i tassi di guarigione a questo livello ridurrebbe i costi diretti legati alla BV e alle sue comorbidità di 1,9–3,9 miliardi di euro all’anno.

Infine, per quanto riguarda salute orale e salute mentale, il team non ha potuto ricavare funzioni di risposta solide, ma ha potuto stimare il valore di miglioramenti incrementali. Considerando che la cattiva salute orale costa all’UE tra 143 e 193 miliardi di euro all’anno, un miglioramento dell’1% varrebbe da solo 1,4–1,9 miliardi l’anno. Per la malattia mentale e l’autismo insieme, ogni miglioramento dell’1% in termini di sintomi e partecipazione corrisponde a circa 5,9 miliardi di euro di beneficio per la società.

Quando tutti questi elementi vengono sommati, e dopo aver tenuto conto con attenzione di sovrapposizioni e incertezze, Holland conclude che i benefici di un uso più ampio dei probiotici in Europa superano comodamente i 10 miliardi di euro l’anno e, in realtà, potrebbero essere diverse volte superiori se si includessero i benefici intangibili e le condizioni ancora poco studiate.

«Sono condizioni molto comuni»

Nel suo intervento dopo la presentazione, Holland ha sottolineato che l’analisi è deliberatamente conservativa. Il team ha contato solo i benefici per cui si poteva sostenere un legame ragionevole con l’uso di probiotici sulla base di dati pubblicati, e in diversi ambiti ha scelto di modellizzare un miglioramento dell’1% anche se i trial clinici mostrano spesso effetti molto più ampi.

Ha inoltre insistito sul fatto che le condizioni scelte – raffreddori e influenza, diarrea correlata agli antibiotici, stipsi, intolleranza al lattosio, patologie orali, vaginosi batterica, disturbi della salute mentale – sono estremamente comuni nella popolazione dell’UE. Molte persone ne soffrono più volte nell’arco di un anno, e spesso queste condizioni coesistono o portano a comorbidità come malattie cardiovascolari o disagio psicologico. Una prevenzione migliore in questi ambiti, anche se modesta su base individuale, si traduce quindi in grandi benefici a livello di sistema.

Da un punto di vista di economia sanitaria, i probiotici sono particolari perché si collocano all’incrocio tra sanità e consumo quotidiano. Vengono acquistati dai cittadini al supermercato o in farmacia, ma il loro impatto cumulativo – positivo o negativo – si riflette nei bilanci ospedalieri, nelle statistiche sulle indennità di malattia e negli indicatori di produttività. Lo studio di Bruxelles è uno dei primi tentativi di catturare questo legame in modo strutturato, usando gli stessi strumenti standard di valutazione d’impatto impiegati dall’UE in altri settori.

Un paradosso regolatorio

La SEA non si ferma ai numeri, mette anche in evidenza un paradosso regolatorio. L’Europa vanta una tradizione secolare di alimenti fermentati, una solida base scientifica nella ricerca sul microbioma e rilevanti investimenti pubblici in progetti microbioma-correlati nell’ambito dei Programmi Quadro e di Horizon Europe. Eppure, nell’attuale legislazione alimentare dell’UE, il termine “probiotico” non è neppure una categoria giuridicamente riconosciuta.

Poiché l’espressione è stata interpretata dalla Commissione europea come un health claim di per sé, il suo uso in etichetta è molto rigidamente limitato. Dal canto suo, l’EFSA ha applicato criteri molto stringenti alle indicazioni sulla salute relative ai probiotici, approvando finora un solo claim generico (per le colture vive dello yogurt che migliorano la digestione del lattosio) e respingendone oltre 350.

Il risultato è una frammentazione regolatoria. Paesi come Italia, Francia e Spagna hanno sviluppato linee guida pragmatiche, che consentono l’uso della parola “probiotico” su alimenti e integratori a determinate condizioni, mentre altri Stati la vietano o la trattano come un descrittore obbligatorio ma non comunicativo.

Per i consumatori, questo mosaico normativo genera confusione. Una vasta indagine condotta in otto Paesi dell’UE ha rilevato che il 57% degli utilizzatori di probiotici si sente poco informato sul fatto che i prodotti contengano effettivamente probiotici, e il 79% vorrebbe un’etichettatura più chiara. Il rapporto di Holland osserva che, se informazioni migliori convincessero anche solo una parte di questi consumatori a utilizzare i probiotici in modo più costante, il mercato europeo potrebbe espandersi significativamente – con benefici per la prevenzione e conseguenze positive per i bilanci pubblici.

Per i produttori, la mancanza di armonizzazione si traduce in maggiori costi di conformità e in un’incertezza giuridica che può frenare innovazione e investimenti, in particolare per i nuovi ceppi e le nuove formulazioni che emergono dalla scienza più avanzata sul microbioma.

Cosa significa per medici, decisori e industria

Il messaggio emerso da Bruxelles non è che i probiotici siano una bacchetta magica. Holland ha ripetutamente sottolineato che il suo lavoro non costituisce una revisione sistematica formale di tutti i dati sanitari ed economici disponibili, e che l’analisi rimane parziale – soprattutto per i costi intangibili e per condizioni come le malattie neurodegenerative, dove la base di evidenze è ancora in via di consolidamento. Se c’è un bias, nella SEA, è piuttosto verso una sottostima dei benefici.

Ma la combinazione tra la panoramica clinica di Rijkers e il modello economico di Holland lascia pochi dubbi sul fatto che ignorare i probiotici nelle strategie di prevenzione non sia più una scelta neutra, né sul piano intellettuale né su quello fiscale.

Per i clinici, i risultati rafforzano l’idea di integrare prodotti probiotici evidence-based nei percorsi di cura in cui i benefici sono più chiaramente documentati – ad esempio in associazione agli antibiotici nei pazienti ad alto rischio, nella gestione delle recidive di vaginosi batterica o come parte di strategie multimodali per la stipsi negli anziani e l’intolleranza al lattosio.

Per i decisori politici, la SEA offre qualcosa che raramente hanno in questo campo: una stima d’ordine di grandezza di quanto potrebbe valere, in euro, una politica più coerente sui probiotici, usando lo stesso linguaggio e gli stessi metodi che sottendono le valutazioni d’impatto in altri settori. Indica anche una possibile strada da seguire: il riconoscimento formale della definizione OMS/FAO di probiotici come categoria, criteri scientifici e proporzionati per l’uso del termine “probiotico” in etichetta e nella comunicazione e una chiara distinzione tra uso descrittivo generale e specifiche indicazioni sulla salute.

Per l’industria, l’implicazione è che allineare i propri filoni di innovazione a queste sette condizioni ad alto burden – generando dati solidi e specifici di ceppo – potrebbe riposizionare i probiotici non solo come prodotti per il benessere del consumatore, ma come partner credibili nelle strategie dell’UE su scienze della vita, One Health e resistenza antimicrobica.

A Bruxelles, Holland ha riassunto le sue conclusioni con la consueta sobrietà: anche piccoli miglioramenti di condizioni molto diffuse, ottenuti attraverso interventi sicuri e ampiamente accettabili come i probiotici, possono liberare risparmi di un ordine di grandezza che conta per i bilanci sanitari nazionali. La sfida ora è nelle mani dei regolatori, dei sistemi sanitari e dei leader dell’industria: decidere se sono disposti a trattare i probiotici come parte di una seria politica di prevenzione – e non solo come una riga sugli scaffali del supermercato.

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