Un farmaco microbiome based al congresso dell’American Society of Hematology

MaaT Pharma ha mostrato i risultati finali dello studio ARES di Fase 3 su Xervyteg® (MaaT013).

A Orlando, in questi giorni, in una delle sale affollate del congresso annuale dell’American Society of Hematology (ASH), un’azienda microbioma ha fatto qualcosa che, fino a poco tempo fa, sarebbe sembrato al massimo un esercizio di ottimismo: ha presentato dati di Fase 3 che suggeriscono che “aggiustare” l’ecosistema intestinale può aiutare a riportare indietro dal limite alcuni dei pazienti trapiantati più gravi.

MaaT Pharma, con sede a Lione e quotata su Euronext Paris, ha mostrato i risultati finali dello studio ARES di Fase 3 su Xervyteg® (MaaT013), una terapia a base di ecosistema microbico derivata da più donatori e somministrata come clistere. Il farmaco è stato testato come trattamento di terza linea in pazienti adulti con grave malattia acuta da rigetto contro l’ospite con interessamento gastrointestinale (GI-aGvHD), già falliti sia ai corticosteroidi sistemici sia a ruxolitinib. È lo stadio del percorso terapeutico in cui le opzioni si esauriscono e le curve di sopravvivenza, di solito, crollano.

Nello studio ARES, la sopravvivenza globale a 1 anno ha raggiunto il 54% e la mediana di sopravvivenza non è stata raggiunta al momento dell’analisi, il che significa che più della metà dei pazienti era ancora in vita a 12 mesi. Per questa popolazione, non è un semplice miglioramento marginale: è un numero che attira l’attenzione.

Perché questi pazienti sono così difficili da trattare

La malattia acuta da rigetto contro l’ospite (aGvHD) è una complicanza ben nota e temuta del trapianto allogenico di cellule staminali o di midollo osseo. Entro circa 100 giorni dal trapianto, le cellule immunitarie del donatore possono iniziare ad attaccare i tessuti del ricevente, provocando infiammazione della cute, del fegato e – in modo particolarmente devastante – del tratto gastrointestinale.

Quando l’intestino è coinvolto, i pazienti possono sviluppare diarrea massiva, dolore addominale, sanguinamento, infezioni, malnutrizione e insufficienza d’organo. La mortalità aumenta rapidamente, soprattutto nei casi di grave coinvolgimento GI.

La terapia di prima linea standard sono i corticosteroidi sistemici. I pazienti che non rispondono vengono definiti steroido-refrattari e passano ad agenti di seconda linea. Negli ultimi anni, ruxolitinib, un inibitore di JAK1/2, è diventato il riferimento in seconda linea per l’aGvHD steroido-refrattaria, sulla base degli studi REACH e delle successive approvazioni regolatorie.

Nonostante ciò, la sopravvivenza resta deludente nei pazienti che falliscono sia gli steroidi sia ruxolitinib. In pediatria, un prodotto a base di cellule stromali mesenchimali, remestemcel-L, è stato approvato negli Stati Uniti come opzione di seconda linea, ma in terza linea non esiste ancora uno standard consolidato e, negli adulti, le scelte sono un mosaico di immunosoppressori off-label, arruolamento in studi clinici o sola terapia di supporto.

In questo contesto, i dati di ARES non sono solo l’ennesimo dataset: mettono alla prova l’idea che rimodellare l’ecosistema intestinale possa cambiare davvero la traiettoria clinica in una situazione in cui l’immunosoppressione tradizionale ha già fallito.

Dentro lo studio ARES

ARES è uno studio di Fase 3 a braccio singolo e in aperto che ha arruolato 66 pazienti adulti con GI-aGvHD severa in 50 centri di 6 Paesi europei. Si trattava di pazienti pesantemente pretrattati: tutti avevano fallito ruxolitinib, dopo essere stati steroido-refrattari (la grande maggioranza) o steroido-dipendenti, e il 91% presentava una aGvHD di Grado III–IV con interessamento gastrointestinale, cioè l’estremo più grave dello spettro.

Xervyteg è stato utilizzato come intervento di terza linea. L’endpoint primario era il tasso di risposta complessiva gastrointestinale (GI-ORR) a 28 giorni, che comprendeva risposte complete e risposte parziali molto buone (VGPR). Tra gli endpoint secondari figuravano i tassi di risposta a carico di tutti gli organi in diversi time point e la sopravvivenza globale.

Al Giorno 28, il GI-ORR è stato del 62%, con il 38% dei pazienti che ha ottenuto una risposta completa e un ulteriore 20% una risposta parziale molto buona. La risposta complessiva a livello di tutti gli organi, nello stesso momento, è stata del 64%, ancora una volta trainata da un’elevata quota di risposte complete e VGPR. In qualunque contesto di terza linea questi numeri sarebbero incoraggianti; nell’aGvHD GI refrattaria a ruxolitinib sono particolarmente notevoli.

Altrettanto importante, per i clinici in sala, è stata la durata delle risposte. Al Giorno 56, il GI-ORR si manteneva al 47% e l’ORR a livello di tutti gli organi al 45%, con la maggior parte delle risposte ancora complete. A tre mesi, sia il GI-ORR sia l’ORR per tutti gli organi erano al 44%, ancora con una predominanza di risposte complete. In altre parole, non si è trattato solo di un miglioramento effimero dei sintomi: una quota significativa di pazienti ha mantenuto un controllo clinicamente rilevante della malattia nel tempo dopo un ciclo relativamente breve di terapia sul microbioma.

Sopravvivenza: chi risponde e chi no

Le risposte sono importanti, ma è la sopravvivenza che, alla fine, conta. In ARES, il tasso di sopravvivenza globale a 12 mesi per l’intera coorte è stato del 54%, con la mediana di sopravvivenza non raggiunta al momento dell’analisi. Già questo dato appare favorevole rispetto alle aspettative storiche per questa popolazione ad altissimo rischio, pur con tutte le cautele necessarie quando si confrontano studi diversi.

La differenza di sopravvivenza tra responder e non-responder è però il dato che colpisce di più. I pazienti che hanno ottenuto una risposta GI al Giorno 28 hanno mostrato una sopravvivenza a 12 mesi del 68%, contro appena il 28% nei non responder. Per questi ultimi, la mediana di sopravvivenza è stata di soli 54 giorni. Il dato è statisticamente molto significativo (p<0,0001), ma anche senza p-value il messaggio clinico è lampante: se Xervyteg induce una risposta precoce a livello intestinale, le probabilità che quel paziente sia vivo un anno dopo aumentano in modo sostanziale.

Da un punto di vista meccanicistico, ha senso. La GI-aGvHD severa è sostenuta da un circolo vizioso di danno mucosale, disbiosi, infiammazione e rottura della barriera intestinale. Se si riesce a interrompere questo loop precocemente – ripristinando la funzione di barriera, attenuando l’infiammazione e ricostruendo un rapporto più tollerogeno tra sistema immunitario e microbioma – non si riduce solo la diarrea. Si spegne uno dei principali motori delle complicanze sistemiche.

Sul fronte della sicurezza, ARES ha mostrato un profilo di tollerabilità considerato accettabile per una popolazione così fragile, con un monitoraggio continuo da parte di un Data and Safety Monitoring Board indipendente. Non sono emersi nuovi segnali di allarme legati all’uso di un prodotto fecale da donatori multipli in questo contesto, un aspetto che sarà particolarmente rilevante per regolatori e clinici, da sempre molto attenti ai rischi infettivi associati alle terapie derivate da microbiota.

Che cos’è esattamente Xervyteg?

Xervyteg (MaaT013) non è una semplice capsula probiotica a singolo ceppo. È una Microbiome Ecosystem Therapy™: una preparazione standardizzata, pronta all’uso, ottenuta da campioni fecali di più donatori sani accuratamente selezionati, co-coltivati e prodotti secondo standard cGMP, somministrata in ambito ospedaliero per via rettale (clistere).

L’uso di donatori multipli e della piattaforma proprietaria di co-coltivazione di MaaT punta a garantire un’elevata diversità microbica e una buona riproducibilità tra i lotti, due aspetti che possono rappresentare un limite nel trapianto di microbiota fecale tradizionale basato su singolo donatore. Il prodotto è arricchito per quella che l’azienda definisce la comunità “Butycore™”, un gruppo di specie batteriche note per produrre butirrato e altri acidi grassi a corta catena con proprietà antinfiammatorie.

L’idea terapeutica è ristabilire un ecosistema intestinale simbiotico in grado di ricalibrare le risposte immunitarie, ripristinando la tolleranza senza ricorrere a un’immunosoppressione generalizzata.

Per MaaT, Xervyteg è il capofila di una piattaforma più ampia che punta a posizionare la modulazione immunitaria guidata dal microbioma come un nuovo “pilastro” dell’oncologia, accanto a chemioterapia, terapie mirate e inibitori dei checkpoint immunitari. Oltre alla GvHD, l’azienda sta esplorando terapie microbiomiche come complemento all’immunoterapia nei tumori solidi e in altri contesti in cui il ruolo dell’ecosistema intestinale sulla risposta ai trattamenti è sempre più evidente.

Il conto alla rovescia regolatorio in Europa

Il dataset di ARES non è solo un esercizio accademico. MaaT ha già presentato una domanda di Autorizzazione all’Immissione in Commercio (MAA) all’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA) per Xervyteg nei pazienti con GI-aGvHD refrattaria a ruxolitinib, con una decisione attesa indicativamente per metà 2026. Il prodotto gode della Designazione di Farmaco Orfano sia in Europa sia negli Stati Uniti, a riconoscimento dell’elevato bisogno insoddisfatto in questa indicazione rare ma gravissima.

Se l’EMA darà il via libera, Xervyteg diventerebbe la prima terapia a base di microbioma approvata in oncologia a livello globale e la prima opzione di terza linea formalmente autorizzata per l’aGvHD in Europa. Sarebbe un passaggio simbolico importante per l’intero settore del microbioma, che negli ultimi anni ha alternato grandi aspettative, qualche delusione e pochissimi successi regolatori, finora concentrati soprattutto nella prevenzione delle recidive da Clostridioides difficile.

Per i centri trapianto, un’eventuale approvazione imporrebbe da subito di ripensare i percorsi terapeutici: dove collocare Xervyteg nelle linee guida, come identificare i candidati ideali, come integrare un clistere microbiomico in percorsi ospedalieri già di per sé complessi.

Per i payer, la domanda sarà come valorizzare una terapia che non è né un biologico “classico” né una piccola molecola, ma un ecosistema vivente che, almeno in teoria, potrebbe prevenire ricoveri in terapia intensiva, infezioni invasive e l’uso di costose terapie di salvataggio.

Implicazioni di business: da “piattaforma” a prodotto

Sul piano industriale, MaaT è a un punto di svolta. Per anni l’azienda si è presentata come una “platform company”, imperniata sulle Microbiome Ecosystem Therapies, sugli strumenti bioinformatici come gutPrint® e su una capacità produttiva verticalmente integrata. Con ARES, Xervyteg diventa un prodotto concreto, con un chiaro valore clinico e un mercato iniziale ben definito: i pazienti adulti con GI-aGvHD grave, refrattaria a ruxolitinib, in Europa e potenzialmente nel Regno Unito.

L’azienda si è già mossa per preparare la fase commerciale. Nel 2025 MaaT ha firmato un accordo esclusivo di licenza, distribuzione e fornitura con Clinigen per Xervyteg nell’Area Economica Europea e nel Regno Unito. Clinigen si occuperà di distribuzione e accesso al mercato in queste regioni, mentre MaaT si concentrerà su produzione e R&S, una divisione dei ruoli che permette a una biotech relativamente piccola di evitare i costi e i ritardi legati alla costruzione da zero di un’infrastruttura commerciale paneuropea.

Sul fronte finanziario, MaaT ha affiancato al capitale di rischio diverse fonti di finanziamento non diluitivo, tra cui un prestito della Banca Europea per gli Investimenti destinato a sostenere il potenziamento produttivo nel microbioma e l’espansione della pipeline in oncologia.

Tutto questo delinea un percorso strategico abbastanza chiaro: ottenere l’approvazione EMA e le prime entrate da Xervyteg nella GvHD, dimostrare impatto e sicurezza nel mondo reale su larga scala e poi capitalizzare lo stesso know-how tecnologico in ulteriori indicazioni oncologiche in cui il ruolo del microbioma è sempre più documentato.

Nuovo pilastro o soluzione di nicchia?

Guardando oltre il singolo prodotto, ARES sarà osservato da vicino almeno per tre motivi.

Primo, mette alla prova una modalità terapeutica davvero nuova in un contesto in cui l’immunosoppressione convenzionale ha già fallito. Se i benefici di Xervyteg saranno confermati dall’esperienza in real life, si rafforzerà l’idea che le terapie a ecosistema microbico non siano solo “supportive care”, ma possano entrare a pieno titolo nella gestione di patologie gravissime.

Secondo, ARES è uno studio registrativo in un segmento ristretto, ma clinicamente cruciale. È difficile che Xervyteg diventi un blockbuster di massa nella sua indicazione iniziale, ma potrebbe affermarsi come un prodotto ospedaliero ad alto valore, con prezzi elevati, capace di consolidare la reputazione di MaaT e sostenere l’espansione del portafoglio – un po’ come è accaduto con diversi farmaci per malattie rare.

Terzo, lo studio riaprirà le discussioni sui disegni sperimentali in ambito microbioma. ARES è uno studio a braccio singolo, senza comparatore randomizzato; i confronti con i controlli storici sono inevitabili ma imperfetti. I regolatori dovranno bilanciare la gravità estrema della condizione, le sfide etiche e logistiche nel randomizzare pazienti privi di altre opzioni approvate, e la forza dei segnali di risposta e sopravvivenza. Se l’EMA dovesse ritenere i dati sufficienti, si creerebbe un precedente importante per futuri prodotti microbiomici in indicazioni a bisogni ultra-critici.

E adesso?

Per il momento, MaaT sta preparando la pubblicazione integrale dei dati di ARES su una rivista peer-reviewed e sta attraversando le varie tappe della valutazione EMA. I clinici vorranno vedere nel dettaglio il profilo di sicurezza, le analisi per sottogruppi e le correlazioni tra cambiamenti del microbioma e risposta clinica. Gli economisti sanitari e i payer inizieranno a modellare i possibili risparmi legati alla riduzione delle complicanze. Gli investitori seguiranno da vicino il dialogo con i regolatori e i primi segnali sulla strategia di prezzo.

Ma il messaggio più ampio è già chiaro. In una malattia che colpisce i pazienti oncologici più fragili in uno dei momenti più delicati del loro percorso, una terapia costruita sulla diversità microbica ha prodotto risposte durevoli e un segnale di sopravvivenza difficile da ignorare. Che Xervyteg diventi o meno il nuovo standard di terza linea, ARES ha avvicinato di un altro passo il mondo del microbioma alla pratica clinica quotidiana, spostandolo dal regno della teoria a quello delle decisioni di corsia.

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