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Il trapianto di microbiota intestinale al tempo del Coronavirus

Un gruppo internazionale di medici e ricercatori propone di modificare i criteri di screening sul trapianto fecale per la sicurezza dei pazienti.
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Il trapianto di microbiota intestinale al tempo del Coronavirus

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Sono sempre più numerose le prove che il SARS-CoV-2, virus responsabile del Covid-19, colonizzi anche l’apparato gastroenterico. Oltre ai polmoni il nuovo coronavirus è stato individuato anche nell’esofago, nello stomaco, nel duodeno, nel retto e nelle feci dei pazienti positivi al tampone.

Da qui l’ipotesi di una possibile trasmissione oro-fecale del virus. Ma ci possono essere altre implicazioni? Sì, secondo un gruppo internazionale di gastroenterologi e ricercatori, che proprio oggi ha pubblicato sulle pagine di Lancet Gastroenterology & Hepatology un commento che riguarda il trapianto di microbiota intestinale (primo nome Gianluca Ianiro del Policlinico Gemelli di Roma).

Cosa scrivono gli esperti? Anzitutto sollevano un possibile problema correlato alla presenza del virus nell’apparato gastroenterico e si domandano: come possiamo garantire la sicurezza del trapianto di microbiota intestinale?

Il trapianto di microbiota è ormai considerato “La procedura” per i casi di infezioni da Clostridium difficile resistente agli antibiotici.

«Considerando l’epidemia globale di COVID-19» scrivono gli esperti «riteniamo urgente aggiornare le raccomandazioni (almeno temporaneamente) sullo screening dei donatori di feci, poiché il rischio di trasmissione della SARS-CoV-2 per trapianto di microbiota fecale potrebbe essere superiore a quello di altri trapianti di tessuti. Diverse evidenze hanno dimostrato che il SARS-CoV-2 può essere trovato nelle feci anche quando non è più rilevabile nel tratto respiratorio, suggerendo la possibilità di una via di trasmissione oro-fecale».

Non ha vita facile il trapianto di microbiota intestinale. Pochi mesi fa la notizia che negli Stati Uniti due pazienti erano deceduti in seguito alla procedura aveva guadagnato le pagine del New England Journal of Medicine. Per questo è importante, secondo gli esperti, sottolineare da subito i possibili rischi connessi alle infezioni da coronavirus.

Cosa propongono quindi in concreto? Che in tutto il mondo siano adottate misure precauzionali aggiuntive nella fase di screening dei donatori. In che modo individuare il possibile rischio? Anzitutto occorre valutare la presenza di sintomi tipici del Covid-19: febbre, fatigue, mialgia, dispnea, mal di testa, tosse. Ma non solo: se il donatore ha soggiornato nei 30 giorni precedenti in regioni a rischio oppure è stato a stretto contatto con individui positivi o sospetti positivi al tampone è bene evitare di procedere con la donazione.

«In presenza di uno di questi fattori di rischio» sottolinea il gruppo di esperti «i casi sono due. O si rifiuta la biomassa fecale o si esegue un test RT-PCR per verificare la presenza del SARS-CoV-2».

Infine le biobanche. «Dovrebbero controllare retrospettivamente lo stato di salute del donatore prima di utilizzare feci congelate, secondo l’epidemiologia locale, al fine di evitare un’ulteriore diffusione potenziale di SARS-CoV-2».

Non sappiamo ancora per quante settimane o mesi dovremo gestire l’emergenza coronavirus, ma di sicuro le precauzioni da adottare, anche quando usciremo da questo tunnel, saranno di più di quanto abbiamo fatto finora.

Massimo Barberi
Dopo la laurea in CTF e una carriera nella ricerca, decido di dedicarmi all’informazione medico scientifica. Nel 2002 divento giornalista professionista occupandomi di aggiornamento professionale per HCP e informazione scientifica. In Microbioma.it sono direttore editoriale e coordino le attività di giornalisti, copy e medical writer.

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