Ogni anno sono circa due milioni i decessi in tutto il mondo alla cui origine ci sono condizioni che danneggiano il fegato e ne impediscono il buon funzionamento.
Una nuova ricerca, pubblicata su Cell Metabolism, indica che l’analisi del microbiota intestinale, in aggiunta ai fattori di rischio convenzionali, può rappresentare un approccio non invasivo per prevedere il rischio di sviluppare malattie del fegato. Si apre quindi la possibilità che l’analisi del microbiota possa entrare a pieno titolo nella pratica clinica, andando ad affiancare le valutazioni convenzionali sui fattori di rischio al fine di prevedere lo sviluppo di patologie epatiche.
Microbiota intestinale e studi di associazione
Diversi studi condotti negli ultimi anni hanno dimostrato che l’obesità, l’età e il consumo eccessivo di alcol possono contribuire allo sviluppo di malattie del fegato.
Più di recente è stata messa in evidenza una correlazione tra il microbiota intestinale e lo sviluppo di malattie del fegato; inoltre, i microbi intestinali potrebbero svolgere un ruolo nella diagnosi di cirrosi epatica.
«Gli studi condotti in passato sono stati limitati dal disegno di studio trasversale ed è stato ottenuto un numero ridotto di dati sull’associazione tra il microbiota basale e la malattia epatica», affermano i ricercatori.
«Sarà quindi importante indagare se il microbioma intestinale sia causalmente collegato alle patologie epatiche o se possa essere utilizzato come strumento di stratificazione per identificare le persone ad alto rischio che potrebbero trarre beneficio da interventi mirati».
A questo scopo, i ricercatori guidati da Yang Liu e Michael Inouye del Baker Heart and Diabetes Institute hanno analizzato campioni di feci e dati sulla salute di 7.115 finlandesi.
Machine learning per analizzare i dati
I partecipanti allo studio – di età compresa tra 25 e 74 anni al momento del reclutamento – sono stati seguiti per circa 14 anni.
Nel complesso, i ricercatori hanno scoperto che tra i batteri più abbondanti nell’intestino dei partecipanti erano inclusi Firmicutes, Bacteroidota, Actinobacteriota e Proteobacteria.
I ricercatori hanno anche sviluppato e testato modelli di machine learning per prevedere le malattie del fegato analizzando la composizione del microbiota intestinale.
Dai risultati ottenuti è emerso che i modelli di fattori di rischio convenzionali e i dati sul microbiota intestinale migliorano la previsione della malattia epatica rispetto ai modelli di previsione convenzionali.
I modelli di machine learning potrebbero anche prevedere la sopravvivenza dei gruppi a rischio.
Infine, i ricercatori hanno convalidato i loro modelli in uno studio caso-controllo incentrato sulla steatosi epatica non alcolica.
Batteri coinvolti nel rischio epatico
L’analisi del microbiota intestinale dei partecipanti ha rivelato che diversi microbi, tra cui Actinobacteriota, Bacteroidota, Firmicutes e Proteobacteria, sono associati a malattie del fegato.
Alcuni di questi risultati hanno confermato studi precedenti sulla correlazione tra le specie batteriche, la funzionalità epatica e la progressione della malattia.
Ad esempio, è già stato dimostrato che le alterazioni della barriera intestinale, che causano una maggiore permeabilità intestinale e sono associate ai batteri Ruminococcus, Dorea, Faecalibacterium e Blautia, possono svolgere un ruolo chiave nello sviluppo delle malattie epatiche.
Inoltre, è noto che Bacteroidota e Proteobacteria producono lipopolisaccaridi, molecole chimiche derivate dalla membrana esterna dei batteri che innescano una cascata di risposta infiammatoria, favorendo la progressione della steatosi.
Conclusioni
«Abbiamo dimostrato che i modelli che prendono in considerazione separatamente il microbioma intestinale o i fattori di rischio convenzionali forniscono previsioni simili, mentre la loro analisi combinata consente di migliorare notevolmente la previsione», affermano gli autori.
«Tuttavia» concludono «il ruolo preciso del microbiota intestinale è poco compreso e i nostri risultati indicano la necessità di una risoluzione a livello di specie o addirittura livelli di risoluzione maggiori offerti da un sequenziamento metagenomico ancora più dettagliato».