Trapianto fecale autologo come supporto nella gestione di una patologia complessa come il diabete. Per una sua efficacia è però fondamentale la procedura con la quale si interviene, dalla via di somministrazione alla distanza dei richiami.
Lo affermano Gianluca Ianiro, Antonio Gasbarrini e Giovanni Cammarota del Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS di Roma, in un commentario di recente pubblicato su Gut – BMJ.
Diabete di tipo 1 e microbiota intestinale
Tra le varie patologie e disturbi nei quali il microbiota intestinale ha dimostrato un ruolo attivo e importante c’è il diabete di tipo 1 (T1D). Un ripristino dell’equilibrio batterico potrebbe quindi essere una valida alternativa di trattamento. Ancora scarse sono però le evidenze a riguardo sull’uomo.
Tra queste, i ricercatori italiani hanno indagato proprio l’effetto di un trapianto di microbioma fecale autologo (cioè prelevando il materiale dallo stesso paziente) o allogenico (quando il donatore è un’altra persona, sana in questo caso) nel quadro clinico di pazienti diabetici.
Nel dettaglio, i pazienti hanno ricevuto per via nasoduodenale il trapianto di 200-300 g di materiale fecale per tre volte a distanza di due mesi.
Gli eventuali benefici sono stati quindi monitorati dopo sei mesi dall’ultima infusione, contrariamente a quanto riportato in altri studi dove il follow-up era stato molto più ravvicinato e quasi sempre non soddisfacente.
Conclusioni
Il semplice trapianto autologo sembrerebbe indurre effetti positivi con minor probabilità di creare problemi di tolleranza.
Il cambio di ambiente, passare quindi da quello fecale a quello duodenale, ha dimostrato di alterare positivamente le caratteristiche favorendo l’eubiosi locale.
Tale cambiamento non si è tuttavia registrato con il trasferimento del microbioma fecale all’intestino tenue, suggerendo come anche la sede finale di trapianto sia fondamentale.