L’allarme arriva da uno studio di un gruppo di ricercatori dell’University of Alberta in Canada: l’evoluzione della dieta tipica dei paesi occidentali danneggia la biodiversità della popolazione batterica del nostro intestino.
Per recuperarla, affermano gli scienziati, una possibile soluzione potrebbe essere l’aumento del tasso di fibre assunte nella nostra alimentazione.
La perdita di alcune specie di batteri benefici presenti nell’intestino umano è stata connessa alla mancanza di alcuni elementi nutritivi nella dieta dei paesi industrializzati: si tratta di una connessione che richiede ulteriori conferme, ma i nutrizionisti parlano da tempo di “fiber gap”, riferendosi al fatto che la maggioranza degli occidentali assume quotidianamente circa la metà delle fibre consigliate, togliendo ai batteri intestinali la principale fonte di nutrimento.
«L’idea di aumentare il tasso di fibre non è nuova» spiega Jens Walter dell’Università di Alberta, in Canada. «L’esaurimento del microbioma, però, fornisce una nuova prospettiva sullo stile alimentare occidentale».
All’inizio di quest’anno, uno studio condotto a Stanford su alcuni topi ha mostrato che la dieta occidentale tipica (ricca di grassi e carboidrati, ma povera di fibre) ha determinato un calo nella diversità delle specie batteriche benefiche.
La reintroduzione del normale tasso di fibre non ha invertito la tendenza: l’estinzione di queste specie sarebbe quindi avvenuta nell’arco di poche generazioni.
I ricercatori canadesi temono che questo drastico cambio rispetto allo stile alimentare sotto il quale la nostra specie si è evoluta in simbiosi con i suoi batteri giochi un ruolo chiave nell’aumento di disturbi come l’obesità.
La perdita di diversità nel microbioma intestinale si riflette anche sulla salute, ed espone a problemi di tipo immunologico e metabolico.
L’azione benefica delle fibre è supportata da prove di tipo epidemiologico e, in misura minore, anche clinico.
«Il problema principale, allo stato attuale, è che né il consumo di fibre né i dosaggi utilizzati nella ricerca medica sono abbastanza alti» afferma Walter, il quale ha evidenziato che spesso nelle ricerche relative all’effetto delle fibre sulla salute, si utilizzano dosaggi fra i 5 e i 15 grammi; quantità che lo scienziato definisce «fisiologicamente irrilevanti».
Nelle società non industrializzate, al contrario, l’assunzione di fibre è molto più alta: i ricercatori citano, a supporto della tesi, uno studio pubblicato su Nature Communications, nel quale un gruppo di afroamericani ha seguito una dieta tradizionale sudafricana, con un tasso di fibre pari a 55 grammi quotidiani.
Nel giro di due settimane, i partecipanti allo studio hanno registrato netti miglioramenti sui marker per il tumore del colon.
Walter e colleghi propongono uno sforzo collettivo da parte di scienziati, produttori di cibo, politici e gruppi di interesse per affrontare il problema del “fiber gap”, rilevando l’importanza di valutazioni cliniche su diversi tipi di fibre e i loro effetti sul microbioma intestinale.
Walter propone inoltre l’introduzione di un sistema di regole differenti e specifiche per il cibo, diverse da quelle applicate per i farmaci: «Un sistema di regole che rende estremamente difficile, per gli alimenti, ottenere indicazioni sulla salute è molto dannoso» afferma lo scienziato.
Un cambio di rotta, in questo senso, secondo il ricercatore incoraggerebbe ricerche innovative sulla prevenzione di malattie, intervenendo sulle comunità batteriche con le quali gli esseri umani si sono evoluti, e studiando il modo in cui la nostra dieta influenza loro e, di riflesso, noi.