Secondo una revisione condotta alla Harvard Medical School in Boston, Massachusetts (USA), e pubblicata su Gastroenterology & Hepatology, il trapianto di microbiota fecale (FMT) potrebbe prevenire le infezioni da Clostridium difficile (CDI) ricorrenti nei pazienti affetti da malattie infiammatorie croniche intestinali (IBD).
Le infezioni da C. difficile colpiscono tra il 5% e il 20% dei pazienti ospedalizzati affetti da IBD con riacutizzazioni, alzando il rischio di mortalità.
L’insorgenza è favorita da diversi fattori associati alla malattia infiammatoria cronica intestinale, tra i quali colite ulcerosa, l’uso di antibiotici e di inibitori di pompa protonica, i livelli di albumina inferiori a 3 g/dL e l’assunzione di immunomodulatori.
Sia nelle CDI che nelle IBD si osserva uno stato di disbiosi dell’ambiente microbico intestinale.
In particolare per le IBD, recenti ricerche hanno dimostrato che il ruolo dei batteri è fondamentale nell’insorgenza e nello sviluppo della patologia.
È quindi ipotizzabile che un’operazione di manipolazione del microbiota intestinale possa ridurre o prevenire l’infiammazione enterica causata dalla condizione cronica.
A questo scopo, una delle tecniche a disposizione per intervenire sulla disbiosi è il trapianto di microbioma fecale, la cui efficacia è stata dimostrata già da diverse ricerche.
Tuttavia, a oggi non è stato pubblicato alcuno studio diretto sul possibile uso di FMT nei casi di compresenza tra malattia cronica intestinale e infezione da C. difficile.
Al fine di indagare sulla questione i gastroenterologi Robert J. Gianotti e Alan C. Moss, autori della revisione, hanno analizzato in primo luogo i precedenti studi sul trapianto fecale nei casi di CDI, facendo un particolare focus su quei pazienti affetti contemporaneamente anche da IBD.
Successivamente si sono concentrati sulle pubblicazioni riguardanti l’efficacia della tecnica nei soggetti con colite ulcerosa e Morbo di Crohn.
Trapianto di microbiota nei pazienti con CDI e IBD
Dai più recenti trial clinici randomizzati è emerso che il trapianto di microbioma fecale da parte di un donatore sano riesce a ripristinare la diversità batterica, riducendo la nicchia ecologica in cui C. difficile prolifera.
Questo avviene indipendentemente dal metodo di somministrazione: capsule, clistere e infusioni duodenali riescono indifferentemente a risolvere i casi di diarrea da C. difficile nel 70-90% dei casi.
Tra gli studi presi in esame nella revisione, quattro includevano pazienti affetti da IBD nelle loro coorti. Gli autori si sono concentrati proprio su questi soggetti, trovando altissime percentuali di guarigione da CDI tramite FMT (tra il 74% e il 94%).
IBD: l’intervento dipende dalla specifica patologia
Per quanto riguarda il trapianto di microbioma fecale nel trattamento delle malattie infiammatorie croniche intestinali i risultati variano a seconda del tipo di patologia.
Nel 2015 due studi clinici hanno indagato sul rapporto tra trapianto di microbioma fecale e colite ulcerosa.
Il primo, un trial randomizzato in doppio cieco su 50 soggetti (con trapianto via nasoduodenale), ha rivelato un miglioramento della diversità batterica, con uno shift verso il microbiota del donatore.
Il secondo, su 75 soggetti, ha verificato l’efficacia del clistere fecale. Qui, nel 24% dei pazienti sottoposti alla terapia, la colite ulcerosa era in remissione dopo 7 settimane, contro il 5% del gruppo trattato con placebo.
Il quadro che emerge suggerisce quindi la validità della tecnica per questa patologia.
Nei due studi presi in esame riguardanti, invece, i pazienti affetti da malattia di Crohn, i risultati sono stati più eterogenei. In un caso si sono osservati miglioramenti soltanto in 11 soggetti su 19.
In un altro la terapia, applicata a 9 pazienti, non ha portato ad alcun cambiamento favorevole all’interno di un arco temporale di 8 settimane.
Nonostante l’incertezza emersa da questi ultimi risultati sulla malattia di Crohn, secondo gli autori della revisione è indubbio che il trapianto di microbioma fecale sia una strategia sicura ed efficace nella prevenzione delle infezioni da Clostridium difficile ricorrenti nei pazienti che soffrono di malattie infiammatorie croniche intestinali.
Tuttavia affermano: «I medici devono capire in che modo l’intervento di trapianto di microbioma fecale alteri la diversità microbiale e attraverso quali specie batteriche».
Ancora manca, infatti, la conoscenza medico-scientifica di quali sono i precisi meccanismi d’azione di tale terapia. Questa lacuna potrà essere colmata conducendo ulteriori trial clinici.