Manipolare il microbiota intestinale per ridurre la gravità dell’infezione da COVID-19 sfruttando l’associazione dimostrata tra alterazioni batteriche e il decorso clinico. Al momento non c’è nulla di certo, ma i primi dati sono incoraggianti.
Tra questi c’è lo studio preliminare di Tao Zuo e colleghi della “The Chinese University of Hong Kong” (Hong Kong, Cina), di recente pubblicato su Gastroenterology.
Coronavirus e microbiota intestinale
Al primo di maggio, i casi accertati di COVID-19 (SARS-CoV-2 erano oltre 3.3 milioni. Di fatto è un’infezione virale delle vie aeree superiori con sintomatologia per lo più moderata o leggera. Meno frequenti, ma possibili, le complicazioni respiratorie gravi e/o la morte.
Nel 10-20% dei casi, ai sintomi respiratori (tosse, dispnea) si associano disturbi gastrointestinali. Recenti studi dimostrano infatti come il principale target virale, ossia i recettori ACE2, siano più espressi a livello gastrointestinale che respiratorio. In circa il 50% dei pazienti COVID è stato inoltre rintracciato il virus a livello fecale anche con tampone orale negativo. Ciò lascia ipotizzare non soltanto che ci sia una replicazione e quindi un’attività in sede intestinale, ma anche una maggiore permanenza del virus.
Un impatto sulla componente batterica è quindi preventivabile considerando anche come altre infezioni respiratorie abbiano già dimostrato di una correlazione significativa sul microbioma intestinale e come pazienti COVID abbiano presentato nei fluidi polmonari una predominanza di batteri patogeni rispetto ai commensali.
Capire le proporzioni di questo coinvolgimento delineandone le caratteristiche sarebbe quindi utile oltre che importante nella messa a punto delle terapie.
Lo studio su microbiota e gravità dell’infezione
Per farlo, i ricercatori cinesi applicando un approccio metagenomico hanno analizzato campioni fecali di 15 pazienti COVID dal momento del ricovero a quello delle dimissioni confrontandoli con quelli di altrettanti controlli sani al fine di identificarne eventuali alterazioni. Età, genere, uso di antibiotici e co-morbilità sono stati considerati come fattori confondenti.
Di seguito i risultati.
- Pazienti COVID non esposti ad antibiotici hanno registrato un arricchimento di patogeni opportunisti come Clostridium hathewayi, Actinomyces viscosus e Bacteroides nordii rispetto ai controlli. Il gruppo pre-trattato con antibiotici ha inoltre dimostrato un’ulteriore deplezione di batteri simbionti coinvolti nel processo immunitario (Fecalibacterium prausnitzii, Lachnospiraceae bacterium 5_1_63FAA, Eubacterium rectale, Ruminococcus obeum, e Dorea formicigenerans). Tali alterazioni hanno dimostrato di permanere anche una volta debellato il virus
- La positività a COVID-19 ha mostrato l’associazione più forte con le alterazioni batteriche (p=0.002) seguita da iperlipidemia, polmonite e antibiotici. L’età e il genere, di contro, non sembrerebbero influenzare le caratteristiche batteriche
- Esaminandolo prospetticamente, il microbioma dei pazienti ha mostrato una certa stabilità nel tempo e una netta differenza dai controlli sani (per 10 dei 15 pazienti in particolare), sia durante la fase di malattia sia una volta guariti
- 23 taxa batterici hanno registrato significativa associazione con la gravità della malattia, la maggior parte dei quali (15/23, n= 7 correlazione positiva, 8 negativa) appartenenti al phylum Firmicutes. Tra questi 15, tre membri del genere Coprobacillus, Clostridium ramosum e Clostridium hathewayi spp. sono i ceppi con la più forte associazione positiva con la gravità del decorso; di contro, Alistipes onderdonkii e Faecalibacterium prausnitzii spp. hanno registrato la più forte correlazione negativa
- 11 dei 15 pazienti COVID sono risultati positivi per la presenza virale nei campioni fecali all’ammissione (3.86×103 copie per mL di media). Di questi, 5 sono diventati negativi al termine dell’ospedalizzazione
- 14 specie batteriche sono risultate associate alla carica virale fecale nel tempo, 6 di queste del phylum Bacteroidetes. Dei Bacteroides, 4 (Bacteroides dorei, Bacteroides thetaiotaomicron, Bacteroides massiliensis, e Bacteroides ovatus) hanno in particolare mostrato correlazione negativa con la conta di SARS-CoV-2 fecale. Di contro, Erysipelotrichaceae bacterium2_2_44A (Firmicutes spp.) ha registrato la maggiore associazione positiva
L’infezione da COVID-19 sembrerebbe quindi impattare anche sul microbioma intestinale con un aumento di patogeni opportunisti, alcuni dei quali correlati alla gravità del decorso. La disbiosi sembrerebbe poi durare anche in remissione.
Conclusioni
Come sottolineano gli autori si tratta di uno studio preliminare non privo di limitazioni, prima fra tutte il ridotto numero di soggetti inclusi che non permette, nonostante la presa in considerazione dei principali fattori confondenti, la trasferibilità di tali risultati.
A ciò si aggiunga il fatto di aver considerato soltanto pazienti ospedalizzati, non gli asintomatici e/o soggetti con sintomi lievi (la maggior parte).
I campioni fecali raccolti all’ammissione non corrispondono poi all’effettiva composizione batterica nelle fasi iniziali di malattia o in concomitanza con il contagio.
Ulteriori approfondimenti sono perciò necessari al fine di delineare con maggior precisione un’associazione tra l’infezione da COVID-19 e il microbioma intestinale.