L’efficacia di farmaci immunomodulanti utilizzati in terapie oncologiche quali gli inibitori del checkpoint immunitario (ICI), inclusi quelli di morte cellulare programmata (programmed cell death 1 inhibitors o PD-1i), ha mostrato una correlazione positiva con i livelli fecali di acidi grassi a corta catena (SCFAs).
Considerando come questi siano tra i principali metaboliti batterici, l’associazione sostiene il coinvolgimento del microbioma intestinale nella risposta terapeutica.
Un loro monitoraggio, non invasivo, potrebbe quindi rappresentare una valida pratica clinica per ottimizzare l’efficacia di questi farmaci e, di conseguenza, la sopravvivenza dei pazienti.
È quanto conclude lo studio coordinato da Motoo Nomura della Kyoto University (Giappone), recentemente pubblicato su JAMA Network Open.
Immunoterapie oncologiche e microbiota intestinale
Gli inibitori del checkpoint immunitario sono tra i farmaci oncologici più utilizzati. Sono efficaci contro diversi tipi di tumore nonostante il loro effetto diminuisca in presenza di tumori solidi.
La loro azione sembrerebbe essere mediata dal microbiota intestinale, anch’esso attivamente coinvolto nella regolazione del sistema immunitario. I meccanismi alla base rimangono tuttavia da approfondire. Un biomarker valido nella predizione della loro efficacia è però necessario soprattutto con masse solide.
I ricercatori giapponesi hanno quindi analizzato campioni fecali di 52 pazienti oncologici (n=24 con melanoma dei quali 20 con melanoma mucosale) in trattamento con inibitori del checkpoint immunitario PD-1 (nivolumab n=46; pembrolizumab n=6) indagando in particolare il contenuto di SCFAs per un’eventuale correlazione con l’efficacia terapeutica. Campioni ematici (n=31) e informazioni relative alle abitudini alimentari (n=48) sono state inoltre collezionate a ulteriore supporto.
SFCA ed efficacia delle terapie antitumorali
In generale, il 28.8% è risultato responsivo al trattamento farmacologico (n=3 completa risposta; n=12 parziale risposta), il 46.1% no (n=9 stabile; n= 28 progressione). Nessuna differenza significativa tra le caratteristiche dei due gruppi in termini di età, storia di malattia ecc.
Alterazioni consistenti invece nel profilo dei SCFAs fecali. Confrontando i campioni del gruppo responsivo vs il non responsivo si è visto infatti che:
- la concentrazione fecale e plasmatica di SCFAs è maggiore nel gruppo dei responsivi
- acido acetico (AA), propionico (PA), butirrico (BA) e valerico (VA) sono risultati particolarmente elevati nelle feci dei responsivi, PA e VA nel plasma
- nessuna associazione significativa tra la concentrazione individuale di SCFAs plasmatica e fecale
- elevate concentrazioni fecale di AA(HR,0.29;95%CI,0.15-0.54), PA (HR, 0.08;95%CI,0.03-0.20), BA (HR,0.31;95%CI,0.16-0.60) e VA (HR,0.53;95%CI,0.29-0.98) e quelle plasmatica di isovalerico o IVA (HR,0.38;95%CI,0.14-0.99) sono risultate positivamente correlate con la progressione libera da malattia. In seguito ad analisi multivariata però, solo i livelli di PA fecali sono rimasti significativamente correlati a progressione libera da malattia (HR,0.07;95%CI,0.03-0.19)
Considerando poi anche le abitudini alimentari:
- la concentrazione fecale di BA è risultata significativamente associata con l’introito di funghi (OR,6.17;95%CI,1.20-31.7), quella di IVA con verdure verdi (OR,4.50;95%CI,1.30-15.5), cavolo (OR,3.76;95% CI,1.01-13.9) e funghi (OR,3.66;95%CI,1.04-12.9). Nessuna correlazione con la dieta e i livelli fecali di AA, PA, isobutirrico (IBA), IVA, (caproico) CA o SA
- un elevato consumo di funghi si è mostrato significativamente associato con progressione libera da malattia (HR,0.40;95%CI,0.19-0.81)
Conclusioni
In conclusione dunque, alte concentrazioni fecali o plasmatiche di SCFAs sembrerebbero essere associata a una migliore risposta al trattamento con PD-1 e progressione libera da malattia.
Considerando tuttavia il limitato numero di soggetti inclusi, la mancanza di un gruppo di controllo e dell’indagine sui meccanismi d’azione di questi metaboliti nel contesto immuno-farmacologico, ulteriori studi sono necessari al fine di approfondire tali risultati.
Se confermati però, il monitoraggio non invasivo dei SCFAs potrebbe rappresentare un valido supporto clinico nel pianificare la terapia oncologica massimizzandone l’efficacia.