Un gruppo di ricercatori ha confermato il legame tra i microbi intestinali e la risposta a uno specifico trattamento contro il melanoma, l’immunoterapia.
I risultati, pubblicati su Nature Medicine, potrebbero quindi aiutare a sviluppare strategie basate sul microbiota per migliorare l’efficacia dei trattamenti immunoterapici contro questa forma tumorale. «È necessario condurre studi ancora più ampi per identificare le caratteristiche del microbiota intestinale, specifiche per ogni individuo, che hanno maggiori probabilità di favorire una risposta positiva all’immunoterapia», afferma l’autore senior dello studio Nicola Segata dell’Università di Trento.
Il melanoma è la forma di tumore della pelle più pericolosa e tra le neoplasia più comuni sotto i 30 anni. Numerosi studi condotti negli ultimi anni hanno dimostrato che meno del 50% dei pazienti affetti da melanoma risponde all’immunoterapia.
Sebbene sia stata osservata una correlazione tra la composizione del microbiota intestinale e la risposta a questo trattamento, rimangono ancora da chiarire le caratteristiche specifiche del microbiota che possono portare a benefici clinici.
Risposta terapeutica e microbiota intestinale
Per cercare di rispondere a questa domanda, Nicola Segata e i suoi colleghi hanno raccolto campioni di feci e analizzato il microbiota di 175 pazienti, provenienti da cinque centri clinici nel Regno Unito, nei Paesi Bassi e in Spagna, affetti da melanoma avanzato e ai quali sono stati somministrati inibitori del checkpoint immunitario.
I ricercatori hanno quindi sequenziato il DNA microbico per scoprire potenziali associazioni tra la composizione del microbiota intestinale e la risposta del paziente all’immunoterapia.
Il team ha confermato i risultati già osservati in precedenza, ossia che il microbiota intestinale correla con la risposta al trattamento con inibitori del checkpoint immunitario.
Dopodiché i ricercatori hanno scoperto dimostrando che i pazienti con un’elevata abbondanza di tre tipi di batteri – Akkermansia muciniphila, Bifidobacterium pseudocatenulatum e Roseburia species – avevano maggiori probabilità di rispondere meglio all’immunoterapia.
«Questo studio mostra che le possibilità di sopravvivenza in presenza di questi ceppi sono quasi raddoppiate tra i sottogruppi», afferma l’autore senior dello studio Tim Spector del King’s College di Londra.
Dieta e farmaci che modificano il microbiota
Sebbene la presenza di specifici batteri sembri essere associata a una migliore risposta all’immunoterapia, nessuna specie, se presa singolarmente, può essere utilizzata in maniera riproducibile come biomarcatore all’interno dei diversi gruppi di pazienti.
I ricercatori pensano che questa limitata riproducibilità possa essere dovuta a fattori clinici, e non solo, che influenzano il microbiota, modificando così l’associazione tra la composizione microbica intestinale di un paziente e la sua risposta all’immunoterapia.
In effetti, l’analisi condotta ha rivelato che fattori, tra cui la dieta e l’assunzione di specifici farmaci prima dell’immunoterapia, possono influenzare il microbiota.
Tuttavia, l’associazione tra questi fattori e i microbi intestinali sembra essere indipendente dalla risposta del paziente al trattamento con inibitori del checkpoint immunitario.
Conclusioni
Quali sono dunque le prospettive future? I prossimi studi dovranno certamente tenere conto dell’influenza della dieta e di altri fattori sulla composizione del microbiota intestinale durante l’immunoterapia.
«L’obiettivo finale è identificare quali caratteristiche specifiche del microbioma sono in grado di influenzare direttamente i benefici clinici dell’immunoterapia, in modo da sfruttare queste caratteristiche per lo sviluppo di nuovi approcci terapeutici personalizzati in grado di migliorare la risposta terapeutica agli inibitori dei checkpoint immunitari», conclude Tim Spector.