Quando il primo e significativo progetto di ricerca sul microbioma ha mosso i suoi primi passi, in pochi erano disposti a scommettere che questo filone avrebbe dato qualche frutto.
Era il 2007, un’era geologica fa dal punto di vista delle conoscenze sui batteri che popolano il nostro corpo. E succedeva negli Usa, più precisamente a Bethesda, nel Maryland, dove gli NIH statunitensi hanno dato il via al Human Microbiome Project, un progetto durato 10 anni e che ha dato moltissimi risultati.
Visto il successo dell’iniziativa, è stata finanziata una seconda fase, chiamata integrative HMP (iHMP), i cui risultati sono stati pubblicati settimana scorsa su Nature e Nature Medicine.
Tra questi segnaliamo alcuni paper davvero interessanti, come quello che rivela una intrinseca fragilità del microbiota intestinale e della risposta immunitaria nei pazienti con IBD (link).
Molto interessante anche lo studio (link) sul diabete di tipo 2 e il profilo microbico intestinale e nasale come predittori della sensibilità insulinica. Di notevole impatto anche la ricerca (link) sul microbioma vaginale nelle donne in gravidanza, quale possibile biomarker del parto prematuro.
Il secondo giro di boa
È tempo di bilanci. Alla fine della seconda fase abbiamo informazioni sufficienti per iniziare a tirare le fila di quanto fatto finora e ragionare sulla direzione da intraprendere nel prossimo futuro.
Negli ultimi 10 anni sono stati spesi, complessivamente, circa 1,7 miliardi di dollari per la ricerca sul microbioma umano. Sono tanti? Sono pochi? Difficile dirlo in astratto, possiamo dire con certezza che alcune delle scoperte che sono state raggiunte grazie a questi investimenti sono davvero rivoluzionarie. E non arrivano tutte dal Human Microbiome Project statunitense.
Altri progetti, altri finanziamenti, sono nati e cresciuti in tutto il globo. Per citarne alcuni basti pensare al consorzio europeo Metagenomics of the Human Intestinal Tract (MetaHIT), all’irlandese Metagenomics of the Elderly programme (ElderMet), al Canadian Microbiome Initiative e al and Japanese Human Metagenome consortium.
La mole di conoscenze che grazie a questi studi oggi abbiamo a disposizione è impressionante. Fermarsi ora sarebbe folle, significherebbe aver buttato via i soldi degli ultimi 15 anni senza ricavarne molti frutti.
«Finora abbiamo concentrato i nostri sforzi sulla catalogazione dei batteri nel tentativo di manipolare il microbioma per correggere condizioni patologiche, come se fosse un organo distinto dal resto del corpo» commenta Lita Proctor, ex coordinatrice del progetto HMP, dalle colonne di Nature. «Sono convinta che queste informazioni saranno utile per trattare patologie quali il diabete, i tumori e le patologie autoimmuni quando riusciremo a capire le complesse e mutevoli relazioni che, dal punto di vista ecologico ed evoluzionistico, legano i batteri all’ospite».
Frontiere ancora poco esplorate
Va detto anche che la gran parte degli studi pubblicati sul microbioma riguardano l’intestino. I motivi sono ovvi, dal tratto gastroenterico abbiamo iniziato a studiare i batteri e abbiamo già parecchie informazioni. E poi è il contesto probabilmente più ricco, dal punto di vista della biodiversità. Infine, secondo alcuni potrebbe anche essere che manipolandolo si possano ottenere grandi risultati nei confronti di numerose patologie gastroenterologiche.
Ma ci sono tantissime strade ancora poco battute dai ricercatori. Il microbioma cutaneo per esempio, quello dell’albero respiratorio, quello orale e vaginale. Per non parlare del fronte oncologia, su cui diversi gruppi di ricerca anno iniziato negli ultimi anni a lavorare sia dal punto di vista degli outcome delle terapie oncologiche, in particolare i farmaci immuno oncologici, sia dal punto di vista delle tossicità legate alle chemioterapie.
Sono ambiti che richiedono, ancora di più, uno sforzo multidisciplinare, che coinvolga non soltanto gli specialisti di riferimento in queste aree, ma anche bioinformatici, microbiologi, studiosi dell’evoluzione e dei sistemi ecologici complessi.
Secondo Lita Proctor, per gestire al meglio questo tipo di ricerca, si dovrebbe prendere spunto dagli ambiti in cui in passato si sono ottenuti successi notevoli proprio perseguendo un modello multidisciplinare, come l’oceanografia. «Per studiare un ecosistema che si espande sul 70% del pianeta è risultato fondamentale coinvolgere sulle navi, peraltro costosissime, informatici, fisici, chimici, geologi e meteorologi, assieme naturalmente ai biologi marini» conclude Proctor. E questo modello potrebbe dare grandi risultati se applicato al mondo del microbioma.