Infezioni batteriche intestinali associate a mutazioni di geni coinvolti nella risposta immunitaria adattativa, quali la chinasi Pink1, sembrerebbero tra i fattori eziopatologici di sintomatologia correlata al morbo di Parkinson.
È quanto si può riassumere dal complesso studio di Diana Matheoud e colleghi dell’Università di Montreal (Canada), di recente pubblicazione su Nature.
La perdita progressiva di neuroni dopaminergici nella sostanza nigra compatta caratterizza la malattia neurodegenerativa di Parkinson. Nonostante gli aspetti clinici siano abbastanza noti, come pure le sue manifestazioni, sulle cause rimane ancora molto da scoprire. L’infiammazione e la disfunzione mitocondriale sembrerebbero avere un ruolo chiave. A queste si aggiungono possibili mutazioni genetiche, soprattutto per le forme precoci di malattia, a carico per esempio di geni trascriventi la chinasi PINK1 o la ligasi PRKN. A tal proposito, un precedente lavoro dello stesso gruppo di ricerca ha dimostrato che questi due geni, essendo in grado di inibire la presentazione degli antigeni mitocondriali, hanno un ruolo nella risposta immunitaria adattativa. Un ulteriore approfondimento sull’attività di questi due geni è stato quindi l’oggetto del presente lavoro. Di seguito i principali risultati ottenuti in vivo.
Sebbene pazienti affetti da Parkinson con mutazioni nei geni Pink1 e Prkn presentino tutti una progressione della malattia, modelli murini Pink1-/- e Prkn-/-, privi dei due geni in questione, si sono dimostrati globalmente in salute con deficit motori minori o sintomatologia Parkinson-simile lieve. La mancanza di questi geni, di conseguenza, non è la sola responsabile dello sviluppo della malattia.
È stato visto infatti che in questi modelli murini l’esposizione all’enterotossina LPS (lipopolissaccaride) promuove la formazione di vescicole derivate da mitocondri (MDV mitochondrial-derived vesicles) e la presentazione degli antigeni mitocondriali al complesso MHC I. Da ciò l’ipotesi che un’infezione batterica possa attivare la presentazione dell’antigene mitocondriale (MitAP) e la conseguente risposta autoimmune mediata da linfociti T CD8+.
Test immunologici condotti sulla linea cellulare RAW 264.7 opportunamente modificata hanno infatti dimostrato la capacità di tutti i Gram negativi (non quelli positivi) di indurre la MitAP. Tra questi, Escherichia coli (EPEC) e Novosphingobium aromaticivorans hanno prodotto i migliori risultati. Al fine di indagare i meccanismi di base della MitAP da parte dei batteri, l’attenzione si è focalizzata E. coli, dimostrando per esempio che l’infezione di macrofagi RAW con EPEC:
- induce la MitAP entro 8 ore, azione repressa invece in presenza di PRKN
- promuove il rilascio di glicoproteine B vescicolari dai mitocondri in 60-120 minuti
- non agisce significativamente sulla degradazione delle proteine mitocondriali
- non altera i livelli di proteine coinvolte nell’autofagia (LC3).
L’espressione di PINK1 non sembrerebbe però essenziale per controllare la risposta all’infezione. Infatti, infettando modelli non modificati e Pink1-/- con Citrobacter rodentium, patogeno intestinale usato per mimare condizioni di infezioni da EPEC umane, si è visto che, in entrambi i gruppi:
- l’infezione si è risolta in 20 giorni
- al culmine dell’infezione (13° giorno), i livelli del patogeno sono risultati simili, come pure le condizioni istopatologiche, quelle di iperplasia epiteliale e i livelli di marcatori fecali di infiammazione intestinale. Anche la concentrazione di linfociti T si è mostrata comparabile, suggerendo la presenza di un sistema immunitario operativo in entrambi i gruppi.
Di contro, a livello splenico l’infezione con Citrobacter rodentium in modelli murini wild-type e Pink1-/- ha indotto MitAP e la produzione di linfociti T CD8+ specifici per i mitocondri solo nei Pink1-/-.
I ricercatori hanno quindi osservato, attraverso analisi di citometria a flusso, come le cellule immunitarie, linfociti T inclusi, raggiunsero il cervello entro 13-28 giorni dall’infezione, indipendentemente dal genotipo dell’esemplare. Tuttavia, linfociti T CD8+ specifici per i mitocondri sono stati riscontrati solo in modelli Pink1-/-, suggerendo un possibile attacco autoimmune a carico del sistema dopaminergico. Studi precedenti avevano infatti dimostrato in vitro che l’esposizione a LPS o IFN-γ è in grado di promuovere l’espressione del complesso MHC I sulla superficie dei neuroni dopaminergici e di renderli così suscettibili all’attacco dei linfociti T CD8+.
Opportuni test di citotossicità hanno poi dimostrato una suscettibilità dei neuroni dopaminergici, meno di altri, dei modelli Pink1-/- all’attacco da parte dei linfociti T in seguito all’induzione di MitAP.
Focalizzandosi poi sulla manifestazione sintomatologica, il gruppo Pink1-/- ha mostrato una significativa riduzione delle capacità motorie entro i 4 mesi dall’infezione. A sei mesi, test comportamentali hanno inoltre registrato un decremento della durata totale del movimento, della distanza percorsa, dei movimenti verticali e dei valori del “pole test” rispetto ai topi wild type. Di contro, dal “test di presa” sono stati ottenuti risultati simili nei due gruppi.
La somministrazione di L-DOPA, precursore della dopamina, ha però migliorato le performance al “pole test” entro 60 minuti. Inoltre, la ripetizione di tali test a 12 mesi dell’infezione ha fatto registrare un miglioramento generale della abilità motorie suggerendo una sintomatologia transiente. Rispetto a quanto osservato a 6 mesi, infatti, a 12 la densità dei neuroni tirosin-istindin-dopaminergici ha mostrato un netto aumento, ritornando a valori normali. I livelli di linfociti T CD8+ specifici sono invece diminuiti con il tempo.
In conclusione, sebbene i meccanismi del danneggiamento dei neuroni dopaminergici rimangano ancora da approfondire, questo studio sembrerebbe suggerire un ruolo della risposta autoimmune in assenza di PINK1 durante infezioni intestinali nell’eziologia di condizioni cliniche simili al Parkinson. In modelli Pink1-/- sono infatti stati riscontrati linfociti T CD8+ specifici per i mitocondri a livello cerebrale e attivi contro i neuroni dopaminergici. La morte neuronale non sembrerebbe però immediata. È stata infatti preliminarmente confermata una finestra temporale di danneggiamento reversibile importante per future terapie di prevenzione.