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Le tossine alimentari possono causare disbiosi nel microbiota intestinale

L’infezione da HPV sarebbe associata a un alterato microbioma a livello di placenta, cervice uterina e bocca. Ecco quanto dimostra uno studio preliminare finlandese.
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Le tossine alimentari possono causare disbiosi nel microbiota intestinale

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In questo articolo

I rischi associati all’esposizione alle tossine alimentari potrebbero dipendere anche dal microbiota intestinale, che può modificare queste sostanze trasformandole in composti più o meno tossici, esercitare effetti protettivi sulle cellule intestinali e indurre una risposta infiammatoria.

A suggerirlo è uno studio pubblicato su Scientific Reports da un gruppo di ricercatori coordinato da Pierre Peyret, esperto dell’Institut National de la Recherche Agronomique di Clermont-Ferrand (Francia), in cui è stato analizzato l’effetto di 6 tipologie di xenobiotici sull’espressione dei geni dei batteri intestinali, sulla produzione di composti organici volatili (VOC, Volatile Organic Compunds) e sull’effetto di questi ultimi sulle cellule epiteliali dell’intestino.

Cosa sappiamo sugli inquinanti e la salute umana

L’esposizione a sostanze tossiche come gli idrocarburi policiclici aromatici (IPA), i policlorobifenili (PCB), i ritardanti di fiamma bromurati (BFR), le policloro-dibenzo-diossine (PCDD) e i pesticidi da diversi anni desta preoccupazione a causa della loro persistenza nell’ambiente, della capacità di spostarsi su lunghe distanze e di quella di accumularsi nell’organismo.

Per di più è stata associata a diverse patologie, inclusi disturbi del metabolismo, delle difese immunitarie e delle funzioni riproduttive e forme tumorali.

Anche le amine eterocicliche (HCA) derivanti dalla cottura degli alimenti sono associate a effetti tossici simili a quelli di queste sostanze, e sono classificate come potenziali agenti cancerogeni.

Proprio perché l’esposizione a questi composti avviene principalmente attraverso l’alimentazione, Peyret e collaboratori hanno deciso di analizzare il loro effetto sul microbiota intestinale.

Ricerche condotte precedentemente su modelli animali hanno svelato che queste sostanze possono alterare il microbiota intestinale.

Nei topi, per esempio, il 2,3,7,8-tetraclorodibenzofurano (TCDF) riduce il rapporto tra Firmicutes e Bacteroidetes, mentre l’esposizione cronica alla 2,3,7,8-tetraclorodibenzo-p-diossina (TCDD), invece, lo fa aumentare.

Cosa hanno scoperto in questo studio sul microbiota intestinale

Lo studio in vitro pubblicato su Scientific Reports ha dapprima previsto la valutazione del trascrittoma e del volatoloma (l’insieme dei VOC) del microbiota esposto a diverse concentrazioni di 5 inquinanti (TCDD, deltametrina, esabromociclododecano – HBCD – benzo[a]pirene – B[a]P – o 2-amino-1-metil-6-fenilimidazo[4,5-b]piridina – PhIP) o di una miscela di IPA.

In una seconda fase, colture di cellule di adenocarcinoma del colon-retto (linea TC7) sono state esposte alle molecole prodotte dal microbiota in seguito all’esposizione a queste sostanze per analizzare i loro possibili effetti sulla salute umana.

I VOC, che in natura svolgono un importante ruolo nelle interazioni biologiche fra gli organismi, vengono utilizzati in ambito clinico come marcatori di diverse patologie, inclusi alcuni tumori.

L’uso combinato di una microestrazione in fase solida e gascromatografia-spettrometria di massa ha permesso di identificarne oltre 250 all’interno delle colture di sospensioni di microbiota fecale trattate con le sostanze oggetto di studio.

Fra questi, 5 variano in seguito al trattamento con deltametrina, 2 a quello con PhIP, 7 a quello con TCDD e 4 a quello con IPA. In particolare:

  • deltametrina e TCDD aumentano la presenza di composti solforati;
  • deltametrina, TCDD e PhIP riducono la presenza di 2,2,4,4-tetrametil-3-pentanone;
  • deltametrina e PhIP riducono la presenza di xylene;
  • gli IPA fanno aumentare il 4-metilfenolo, il propilfenilacetato e il metilacetofene, mentre fanno diminuire un composto sconosciuto;
  • i trattamenti con B[a]P e HBCD non sono associati a variazioni nei livelli di VOC.

L’espressione dei geni del microbiota è stata analizzata mediante sequenziamento dell’RNA. Ne sono emersi:

  • l’aumento della trascrizione di geni associati al metabolismo, alla membrana plasmatica e al preiplasma dopo l’esposizione a diossina, BFR e HCA. Questi effetti potrebbero indicare la messa in atto di un meccanismo di difesa tipico delle cellule batteriche, che potrebbero aumentare la rigidità delle loro membrane per evitare l’accumulo di queste sostanze tossiche al loro interno;
  • l’aumento della trascrizione di geni associati all’attività di proteinchinasi e recettori, soprattutto dopo l’esposizione a TCDD, HBCD e deltametrina. Tale aumento potrebbe indicare l’attivazione o la repressione di risposte cellulari alla presenza degli inquinanti;
  • la riduzione dell’espressione di geni associati ai ribosomi, alla traduzione e alle interazioni con gli acidi nucleici, un effetto che potrebbe riflettere la messa in atto di meccanismi che assicurino ai microbi le funzioni fisiologiche necessarie per la sopravvivenza piuttosto che quelle richieste per la crescita;
  • l’aumento dell’espressione di geni per la resistenza agli antibiotici – in particolare a molecole che hanno come bersaglio la sintesi delle proteine. Questo effetto suggerisce che questi inquinanti potrebbero agire come degli antibiotici che bersagliano l’apparato utilizzato dai batteri per la traduzione;
  • l’induzione dei geni codificanti per la rubredoxina in seguito all’esposizione a PhIP, IPA e HBCD. Questi geni sono coinvolti nella via di degradazione degli alcani (idrocarburi) e, negli organismi anaerobi, nella risposta allo stress ossidativo;
  • l’espressione di una proteina sconosciuta dotata di un dominio specifico di molecole coinvolte nel catabolismo del toluene e nella degradazione degli idrocarburi aromatici. Tale effetto è associato esclusivamente all’esposizione a PhIP e IPA e indica il possibile ruolo svolto dal microbiota nel metabolismo degli xenobiotici.

L’effetto delle molecole prodotte dal microbioma sulle cellule intestinali è stato analizzato esponendo per 4 ore colture di cellule TC7 ai surnatanti delle colture di microbiota trattate con i diversi xenobiotici testati. Ne è emerso che:

  • in queste condizioni sperimentali non viene indotta né necrosi né apoptosi, anzi, il microbiota sembra limitare l’effetto necrotizzante di PhIP, B[a]P e IPA;
  • le sostanze prodotte in seguito all’esposizione a deltametrina, HBCD e IPA inducono un aumento significativo della produzione di interleuchina-8, molecola dall’effetto proinfiammatorio, mentre l’esposizione a PhIP e B[a]P può ridurla;
  • l’esposizione a questi xenobiotici non induce la produzione di Tumor Necrosis Factor-α (proinfiammatorio) o interleuchina-10 (antinfiammatoria).

Conclusioni

L’esposizione cronica agli inquinanti può indurre uno stato di infiammazione cronica. Dai dati raccolti durante questo studio emerge un possibile ruolo protettivo del microbiota contro alcuni dei composti tossici che possono essere assunti per via alimentare; tale effetto protettivo potrebbe esplicarsi proprio attraverso una regolazione dello stato infiammatorio.

Infatti gli inquinanti sembrano indurre una disbiosi funzionale che altera l’equilibrio tra metaboliti anti-infiammatori e metaboliti pro-infiammatori; tuttavia, le informazioni a disposizione non permettono di stabilire quali siano i meccanismi specifici alla base di questa funzione.

Una possibile ipotesi è che il microbiota intervenga nel metabolismo degli xenobiotici. I rischi corsi dalle cellule intestinali in seguito all’esposizione agli inquinanti non dipenderebbero quindi solo dall’effetto di questi ultimi sulle cellule, ma anche da quello dei composti prodotti dal microbiota in seguito all’esposizione a queste sostanze.

A seconda del tipo di inquinante, dell’intensità e della frequenza di esposizione il microbiota potrebbe esercitare un’azione protettiva o aumentare la tossicità e la risposta infiammatoria.

La significatività delle conclusioni cui è possibile giungere in base ai risultati di questo studio è però limitata dal fatto che si tratta degli esiti dell’esposizione acuta a tali sostanze. Per valutare l’effetto dell’esposizione cronica, come quella che avviene nell’arco della vita di un individuo, dovranno essere condotte ulteriori analisi.

Silvia Radrezza
Laureata in Farmacia presso l’Univ. degli Studi di Ferrara, consegue un Master di 1° livello in Ricerca Clinica all’ Univ. degli Studi di Milano. Borsista all’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS dal 2017 al 2018, è ora post-doc presso Max Planck Institute of Molecular Cell Biology and Genetics a Dresda (Germania).

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