In pazienti con diabete di tipo 1 il trapianto di microbiota fecale sembrerebbe portare notevoli benefici. Sostiene infatti l’integrità delle cellule beta pancreatiche e, di conseguenza, la produzione di insulina endogena. Nella gestione di questa complessa patologia, più attenzione dovrebbe essere quindi posta alla componente batterica intestinale.
Lo dimostra lo studio coordinato da Pieter de Groot dell’University Medical Centres di Amsterdam (Olanda), pubblicato di recente su Gut.
Diabete tipo 1 e microbiota
Il diabete di tipo 1 (TD1) è una malattia autoimmune caratterizzata dalla progressiva distruzione di cellule beta del pancreas mediata in particolare dai linfociti T.
Trattamenti immunosoppressivi sono quindi alla base della terapia. La loro efficacia non è però universale o sempre duratura. Numerosi sono infatti i casi di effetti collaterali e/o di non responsività alla terapia. Alternative a sostegno del benessere di questi pazienti sono quindi necessarie.
La patofisiologia del TD1 è stata recentemente collegata a un microbiota alterato. Di contro, trapianti di microbiota fecale (FMT) in modelli murini diabetici hanno registrato benefici nel controllo e miglioramento della malattia. Dati sull’uomo erano, almeno fino a questo studio, mancanti.
Lo studio sui pazienti diabetici
Scopo dei ricercatori è stato quindi quello di verificare questi risultati preliminari su pazienti diabetici (nuova diagnosi) sottoponendoli a FMT autologo (controlli, n=10) o da donatori sani (n=11 FMT).
Monitorati per prima cosa i livelli di peptide C nel tempo, riflesso della salute delle cellule pancreatiche, oltre che di insulina e altri metaboliti plasmatici indicatori della salute dell’ospite.
Anche i cambiamenti batterici post-intervento sono stati infine considerati. Ecco cosa ne è emerso.
- partendo da valori simili tra tutti i pazienti (77 mmol/l/min±21 gruppo autologo vs 78±33 in gruppo allogenico), il trapianto autologo conserva, anzi stimola, i livelli di peptide C meglio rispetto a quello da donatore sano (85 mmol/l/min±27 vs 53±33)
- nessun miglioramento significativo del controllo glicemico nel gruppo autologo rispetto alla controparte (emoglobina glicata, A1c 46 vs 53,5 mmol/mol)
- analoghi tra i gruppi e per tutto lo studio invece il peso, l’apporto nutrizionale, oltre che i livelli di calproteina fecale e microalbuminuria
- nel complesso, il “comportamento” immunologico delle cellule T ha mostrato cambiamenti analoghi nei due gruppi in seguito all’intervento. Tuttavia, CD4+CXCR3+ hanno registrato livelli significativamente diversi con andamenti opposti a quelli del peptide C
Così cambia il microbiota intestinale
Passando poi a verificare i cambiamenti nella comunità batterica:
- l’alpha diversity non ha mostrato complessivamente differenza significativa tra i gruppi né al baseline né a 6 o 12 mesi. Differenze, tuttavia, nell’espressione di determinati ceppi come, ad esempio, quella di D. piger a 6 e 12 mesi. Più marcata l’alterazione invece a sei mesi con un parallelo aumento di diversità nel gruppo allogenico. Nessun trend definito nel duodeno
- cambiamenti di composizione e metaboliti plasmatici relativi sono stati registrati in relazione al gruppo di appartenenza. Prevotella e Streptococcus oralis le specie maggiormente alterate. Correlazione inversa, inoltre, tra Prevotella 1 e l’espressione di peptide C e con quella di D. piger
- il pathway metabolico che maggiormente si differenzia tra i gruppi è risultato essere quello di biosintesi per seleno-amminoacidi
- tra i metaboliti maggiormente predittivi la salute del paziente, 1-myristoyl-2-arachidonoyl-GPC (MA-GPC) e 1-arachidonoyl-GPC (A-GPC) hanno registrato differenze significative tra i gruppi a 12 mesi. I cambiamenti plastici di MA-GCP sono risultati inoltre correlati, tra gli altri, a quelli del peptide C
Analizzando quindi in generale il quadro batterico, la risposta al trapianto di microbiota fecale è prevedibile sulla base della composizione batterica intestinale, dei pathways metabolici fecali e dell’espressione genica duodenale iniziale. Infatti:
- i livelli intestinali di Bacteroides caccae e Coprococcus catus sono risultati significativamente più alti nei rispondenti. Minore, ma presente, anche la differenza di espressione di Paraprevotella spp, Collinsella aerofaciens, Bacteroides eggerthii e Ruminococcus callidus
- a livello fecale l’espressione di pathway correlati all’ossidazione di acidi grassi, alla conversione di acetone in acido colanico sono risultati significativamente più espressi nei rispondenti al baseline
- sempre al baseline, l’espressione duodenale di CCL22, CLDN12, CCL4, CD86, CCL13, CCL19, CXCL12, CLDN14, CX3CL1 e CXCL1 ha mostrato il miglior potere predittivo di risposta al FMT. La loro espressione è inoltre risultata associata ai livelli del peptide C. A questi si associa la proteina di giunzione stretta CLDN12, più elevata nei non rispondenti
- la residua funzionalità pancreatica nel gruppo autologo ha mostrato associazione con elevati valori di C. catus al baseline oltre che a una buona sintesi di acido colanico, acidi grassi e beta ossidazione, elevati valori di CCL22 e CXCL12 e al decremento di R. bromii
- nel gruppo allogenico, il sostegno della funzionalità di cellule beta è risultato associato alla diminuzione fecale di Roseburia intestinalis, della biosintesi di uridinmonofosfato (UMP) e dell’espressione di CD86 e CCL18, entrambi più elevati nei rispondenti al baseline e successivamente diminuiti
- in generale, nei rispondenti la funzione pancreatica si è caratterizzata da un decremento duodenale di Prevotella 1 e Prevotella 2, fecale di C. catus. Diminuiti anche i pathway di sintesi di acidi grassi e beta ossidazione e CD4+CXCR3+ (cellule T). Aumentato di contro il ceppo D. piger
Conclusioni
Per concludere dunque, il trapianto di microbioma fecale in pazienti diabetici sembrerebbe prolungare la funzionalità pancreatica.
Tra tutti, D. piger e B. stercoris a livello fecale e Prevotella spp e S. oralis nel duodeno, hanno mostrato le maggiori potenzialità terapeutiche.
Nella gestione di questa complicata e grave malattia, un notevole aiuto potrebbe quindi venire dal trapianto di microbiota da donatore sano. Ulteriori conferme sono tuttavia necessarie.