Nonostante aumenti di mese in mese il numero di studi che dimostrano come sia positivo il ruolo di alcuni probiotici nella prevenzione primaria dell’infezione da Clostridium difficile, le opinioni a riguardo rimangono ancora controverse.
Ellie J.C. Goldstein e i suoi colleghi del R. M. Alden Research Laboratory, Santa Monica, CA (USA), hanno voluto fare il punto della situazione pubblicando di recente sulla rivista Anaerobe, il loro lavoro di revisione e raccolta delle evidenze scientifiche.
I ricercatori hanno infatti cercato di delineare in modo più chiaro il potenziale uso, il meccanismo d’azione e la sicurezza dei probiotici nell’ambito dell’infezione da Clostridium difficile oltre che il riscontro in termini economici che deriverebbe dal loro impiego.
Sono stati in particolar modo indagati gli effetti di Saccharomyces boulardii, Lactobacillus rhamnosus GG e la combinazione di L. acidophilus CL128, L. casei LBC80R e L. rhamnosus CLR2 (Bio-K+).
Infezione da Clostridium difficile, problema da non sottovalutare
Il Clostridium difficile è di fatto un batterio presente fisiologicamente nel microbiota intestinale di alcuni individui, ma che può comportare sia una vasta gamma di disturbi lievi sia vere e proprie patologie attraverso la produzione, da parte di alcuni ceppi, di enterotossine A e/o citossine B.
La gravità del quadro è determinata anche dallo stato immunitario del soggetto stesso.
Le terapie maggiormente in uso per combattere questo tipo di infezioni sono a base di antibiotici quali vancomicina, mentronidazolo e, di più recente introduzione, fidaxomicina, nonostante siano proprio gli antibiotici i maggiori responsabili di diarrea da Clostridium difficile dato che vanno a intaccare la composizione fisiologica del microbiota intestinale favorendone la colonizzazione da parte di questo batterio.
I tassi di ricaduta sono infatti elevati, attorno a un 15-30%. Approcci alternativi come anticorpi monoclonali, vaccini e trapianto di microbiota fecale stanno prendendo piede.
Altre ricerche, come riportato nello studio, propongono la somministrazione di probiotici nonostante il loro uso preventivo o di trattamento non sia stato ancora ufficialmente raccomandato né dalla Società Americana di Malattie Infettive (IDSA) né dalla Società Europea di Microbiologia Clinica e Malattie Infettive (ESCMID).
Ad esempio, Johnson et al. suggeriscono l’uso di probiotici per la prevenzione primaria dell’infezione da Clostridium difficile, nelle quali il microbiota intestinale risulta meno compromesso, piuttosto che in quella secondaria in quanto risultato più efficace in base ai loro studi.
Nella fattispecie, Johnson e il suo team ha analizzato e confrontato i risultati di 11 studi pubblicati tra il 1976 e il 2010 che prendevano in esame l’infezione da Clostridium difficile come risultato di terapia antibiotica e trattata con probiotici, precedentemente citati, vs placebo.
Fatta eccezione per Lactobacillus rhamnosus GG, gli altri probiotici hanno dimostrato efficacia superiore al placebo.
Quali sono allora le maggiori cause che portano a un uso di probiotici così dibattuto in questo ambito?
Gli autori ne indicano principalmente tre:
- Errata informazione riguardo le evidenze scientifiche disponibili fatta ai medici i quali, di riflesso, non sanno cosa sia meglio consigliare al paziente;
- Necessità di maggiori controlli e standardizzazione della procedura di produzione dei probiotici dato che risultano essere estremamente sensibili alla manipolazione soprattutto se eseguita in condizioni non ottimali. Questo potrebbe influire sulle proprietà finali del prodotto;
- Risultati contrastanti di revisioni sistematiche di letteratura e/o meta-analisi. Lo studio PLACIDE, per esempio, conclude che i probiotici non sono efficaci contro l’infezione da Clostridium difficile mentre una revisione Cochrane indica come “evidenza di qualità moderata” il loro uso preventivo.
Probiotici e infezione da Clostridium difficile
Sono state poi analizzate le evidenze riguardo l’efficacia di questi probiotici correlata al loro presunto meccanismo d’azione.
Saccharomyces boulardii è ritenuto in grado di degradare attraverso proteolisi le tossine prodotte da CD mentre Lactobacillus rhamnosus GG sembrerebbe promuovere la risposta immunitaria intestinale riducendone la permeabilità.
Anche in questo casi gli studi clinici condotti e ripresi in questo lavoro, hanno riportato risultati molto diversi, alcuni dei quali precocemente interrotti perché ritenuti “futili”. Solamente l’impiego della combinazione L. acidophilus CL128, L. casei LBC80R e L. rhamnosus CLR2 sembrerebbe ottenere tutti risultati a favore della sua efficacia.
Aspetti farmacoeconomici e sicurezza
Dal punto di vista della sostenibilità economica e di riduzione dei costi sanitari, gli autori citano Leal et al., il quale ha effettuato un’analisi di costo-efficacia attraverso la valutazione del rischio di infezione da Clostridium difficile comparandolo a quello del prezzo dei probiotici se fossero usati per 30 giorni.
Dai dati ottenuti l’uso preventivo di probiotici potrebbe far risparmiare 518 dollari per ogni paziente a basso rischio rispetto alle cure standard.
Da ultimo è stata presa in considerazione la sicurezza dell’uso di probiotici. Nonostante il loro utilizzo sia consolidato, alcuni studi sottolineano come siano ad oggi poco indagati ed esplicitati gli outcome di sicurezza nei trial con probiotici. Il loro impego è tuttavia ritenuto complessivamente sicuro.
Quello che si può capire dunque da questo lavoro è di come ci sia ancora molta incertezza e molto da scoprire sull’uso e le potenzialità dei probiotici, soprattutto nel campo delle infezioni batteriche.
Ulteriori studi sono quindi necessari per dare risposte più definitive e per andare a considerare il panorama completo delle evidenze di letteratura disponibili.