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Steatoepatite non alcolica: studio italiano dimostra ruolo centrale del microbiota intestinale

Un team ha valutato gli effetti dell'acido obeticolico contro la steatosi epatica non alcolica legata all'alterazione di barriera e microbiota intestinali.
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Steatoepatite non alcolica: studio italiano dimostra ruolo centrale del microbiota intestinale

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Stato dell’arte
Il coinvolgimento del microbiota e della funzionalità intestinale nello sviluppo di patologie epatiche è stato osservato in diversi studi. La traslocazione di batteri e relative endotossine nel circolo sistemico sono tra le cause più comuni, anche se ancora da approfondire.

Cosa aggiunge questo studio
Lo studio valuta in vivo il grado di alterazione microbiota-mediato della barriera intestinale necessario per lo sviluppo di steatosi epatica non alcolica (NASH), oltre che l’efficacia del trattamento con acido obeticolico (OCA) nel contrastare questo processo.

Conclusioni
Per lo sviluppo di NASH è necessaria, oltre all’alterazione della barriera intestinale epiteliale, anche la compromissione batterio-mediata di quella vascolare. La somministrazione di OCA sembrerebbe in grado di migliorare la funzionalità della barriera, riducendo la traslocazione batterica.


La salute intestinale si riflette su vari organi e distretti anatomici, fegato in primis. Lo sviluppo di steatosi epatica non alcolica (NASH) sembrerebbe infatti strettamente correlato all’alterazione della barriera intestinale a livello sia epiteliale, come già noto, sia vascolare, con conseguente traslocazione sistemica di batteri e relative enterotossine. Il trattamento con acido obeticolico (OCA) ha tuttavia fatto registrare risultati incoraggianti nel ristabilire la giusta permeabilità e funzionalità intestinale, contrastando così lo sviluppo della patologia. È quanto dimostrato dallo studio di Maria Rescigno, Juliette Mouries e colleghi dell’Humanitas Clinical and Research Center (Rozzano, Italia), di recente pubblicazione su Journal of Hepatology.

Il collegamento tra patologie come la steatoepatite, e un’aumentata permeabilità intestinale e mobilità batterica extra-sede è ormai noto. Rimangono invece da chiarire i livelli di coinvolgimento batterico e di alterazione della barriera intestinale necessari per il suo sviluppo. A tal proposito, i ricercatori italiani hanno riprodotto in vivo in un modello murino la patologia in questione, la steatoepatite non alcolica o NASH, analizzandone, rispetto a condizioni fisiologiche (gruppo di controllo), aspetti clinici, come l’effetto della dieta, la steatosi, l’infiammazione, l’insulino resistenza ecc. e anatomo-funzionali, come le caratteristiche della barriera intestinale epiteliale (BIE) e vascolare (BIV), il grado di traslocazione batterica ecc.

All’osservazione biologica è stata abbinata una valutazione dell’attività farmacologica con la somministrazione di OCA, derivato di acidi biliari nonché agonista del recettore farnesoide X, il cui utilizzo è risultato promettente in pazienti con diabete e NASH. Di seguito i principali risultati.

Già dopo 48 ore, la dieta ad alto contenuto di grassi saturi o HFD (45% di lardo ) utilizzata per indurre la patologia, rispetto a una isocalorica, ma basata su carboidrati (gruppo di controllo), ha comportato nei topi una riduzione di espressione della proteina di giunzione ZO-1 nelle cellule epiteliali e, di contro, un aumento della traslocazione batterica nella lamina propria di cieco e ileo. A una settimana, invece:

  • nel cieco e nell’ileo è stato rilevato un’ulteriore decremento nell’espressione di ZO-1 sia nelle cellule epiteliali (EpCAM+) sia in quelle endoteliali ematiche (CD34+). È stata registrata una riduzione, seppur non significativa, anche nel colon
  • altre proteine di giunzione quali occludina, claudina-3 e claudina-5 non hanno di contro presentato alterazioni dieta-dipendenti
  • in tutte le porzioni intestinali del gruppo HFD è stata osservata una sovra-espressione di PV1 (plasmalemma vesicle-associated protein), marcatore di permeabilità.

Somministrando ai due gruppi di topi per via orale patogeni associati a pattern molecolari, LPS in particolare, e aumentando nel gruppo HFD il contenuto di grassi saturi introdotti con l’alimentazione (dal 45% al 60%) si è inoltre visto che:

  • a 24 ore l’espressione di ZO-1 si riduce notevolmente suggerendo un danno epiteliale
  • a 48 ore, in linea con quanto dimostrato in precedenza, si registra un aumento di PV1 endoteliale in maniera dose-dipendente e quindi un’alterazione della barriera vascolare
  • a 24 settimane l’integrità della BIV è stata del tutto compromessa, la traslocazione ematica di LPS aumentata, come anche l’accumulo lipidico nel fegato, la fibrosi, la resistenza insulinica, i livelli sierici di ALT e quelli di marcatori di infiammazione quali IFNγ, IL-33 o CCL-2 o di risposta immunitaria (monociti, macrofagi ecc.).

Dato l’indebolimento della barriera intestinale, i ricercatori hanno confrontato l’effettiva presenza di batteri nel fegato, sede della patologia in oggetto, con quella sistemica, dimostrando che:

  • il fegato dei controlli presentava una scarsa conta batterica concentrata principalmente a livello delle cellule immunitarie CD45+
  • nel gruppo in dieta HFD i batteri sono stati riscontrati al di fuori delle cellule immunitarie, nel parenchima, suggerendo una loro libera circolazione
  • i livelli sierici di LPS nel gruppo HFD sono risultati notevolmente superiori rispetto ai controlli, in accordo con un’aumentata traslocazione.

L’endomicroscopia fluorescente ha poi permesso di stabilire il grado di alterazione della BIV in termini di permeabilità. A una e sei settimane, i test hanno confermato quanto osservato in precedenza, registrando un aumento di traslocazione batterica dal lume vascolare alla lamina propria dell’ileo nel gruppo in HFD, ma non nel controllo. La compromissione della barriera, a livello sia epiteliale sia vascolare, sembrerebbe inoltre precedere tutti i segnali tipici di patologia, quali steatosi epatica, ingrossamento adipocitario e danno pancreatico.

Lo studio si è poi concentrato sul ruolo della componente batterica locale, considerando sia le numerose evidenze che confermano la correlazione tra dieta e composizione del microbioma, sia i risultati appena descritti, che dimostrano una compromissione precoce della barriera intestinale in seguito a dieta ad alto contenuto di grassi saturi. Dai risultati ottenuti è emerso che:

  • in modelli SPF (specific-pathogen free) rispetto a quelli germ-free, si registra un aumento di espressione di PV1, supportando un potenziale coinvolgimento batterico nell’influenzare la BIV
  • la ricostituzione della popolazione batterica di modelli germ-free in seguito a trapianto di microbiota fecale non ha permesso la normalizzazione dei livelli di PV1. Non sembra quindi che l’alterazione della BIV possa essere corretta manipolando il microbiota, almeno in esemplari adulti
  • il gruppo germ-free ha dimostrato una certa resistenza nello sviluppo di NASH dipendente da HFD, confermando l’ipotesi che la presenza di batteri e la loro traslocazione siano necessarie per il suo sviluppo
  • in modelli SPF sottoposti a trapianto fecale da donatori alimentati con HFD è stato registrato un aumento di PV1 intestinale e quindi di permeabilità intestinale, oltre che di tessuto adiposo nell’epididimo, anche se alimentati con dieta standard.

Il regime HFD influenzerebbe dunque la BIV causando disbiosi. Il microbiota sembra essere inoltre un fattore necessario per lo sviluppo di steatoepatite non alcolica. Non solo. Da ulteriori esperimenti anche la marcata compromissione della BIV risulterebbe un prerequisito fondamentale. Condizioni fisiologiche, infatti, impedirebbero la traslocazione batterica nel fegato.

Dalle analisi anatomo-cliniche, i ricercatori sono dunque passati alla valutazione di efficacia del trattamento con OCA, vista la sua capacità di migliorare la NASH sia in vivo sia in pazienti, proteggendo inoltre dall’infiammazione indotta da un’aumentata permeabilità intestinale e dalla traslocazione batterica in ratti con colestasi e cirrosi.

Somministrando quindi OCA (30 mg/kg) per una settimana a modelli murini alimentati con HFD o dieta standard, si è visto un generale miglioramento della BIV sostenuto da un decremento dei livelli di PV1 e, di contro, l’aumento di ZO-1.

Come ulteriore conferma, OCA è stato testato anche su modelli sottoposti per due settimane a dieta carente in metionina e colina (MCDD), aminoacidi coinvolti nella regolazione della permeabilità. Il supplemento giornaliero di OCA ha infatti consentito il ripristino di valori normali di PV1 nell’ileo e nel colon, oltre che di ALT epatiche e dei livelli di accumulo lipidico.

Dal punto di vista del meccanismo d’azione, OCA sembrerebbe agire in modo diretto sulle cellule epiteliali attraverso la via di segnalazione WNT/beta-catenina e favorendo l’espressione di proteine di giunzione, quali claudina-5 e ZO-1.

Lo studio si è dunque concluso con test clinici su pazienti NASH. Anche in questo contesto, la marcata compromissione della BIV è risultata un aspetto fondamentale per lo sviluppo della patologia. Inoltre, rispetto ai controlli sani, i pazienti hanno riportato maggiori livelli di PV1 nei vasi endoteliali dell’intestino, suggerendo una compromissione della BIV anche nell’eziopatologia umana.

Riassumendo, dunque, la distruzione della BIV sembrerebbe rappresentare un evento precoce nonché essenziale nello sviluppo di NASH. Tra le sue cause principali, la disbiosi del microbiota locale. La somministrazione di OCA ha fatto registrare tuttavia promettenti risultati nel ristabilire l’equilibrio iniziale. Ulteriori studi sono perciò necessari al fine non solo di approfondire i meccanismi biologici della malattia, ma anche di comprendere meglio i reali benefici che questo principio attivo può dare in fase di trattamento e/o prevenzione.

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