L’isoamilamina, un metabolita rilasciato dai batteri del microbiota intestinale, potrebbe favorire il declino cognitivo influenzando l’espressione genica a livello delle cellule della microglia.
Lo rivela uno studio recente, i cui risultati pubblicati su Cell Host & Microbe, individuano un meccanismo molecolare che mette in relazione i batteri intestinali con l’espressione genica nel cervello. I risultati potrebbero quindi influenzare il panorama terapeutico di molte condizioni neurologiche, e non solo.
Asse intestino cervello
Precedenti ricerche hanno dimostrato che una composizione alterata del microbiota può accelerare l’invecchiamento cerebrale attraverso la produzione di metaboliti tossici, ma non è ancora chiaro quali siano i meccanismi alla base di questo processo.
Inoltre, è stato dimostrato che durante l’invecchiamento la microglia è in uno stato altamente reattivo e sbilanciato, che può portare a disfunzioni cognitive e neurodegenerazione.
Un team di ricercatori guidato da Yun Teng e Huang-Ge Zhang della University of Louisville, negli Stati Uniti, ha quindi deciso di testare se i metaboliti microbici possano influenzare la funzione della microglia.
Il declino cognitivo inizia nell’intestino?
In primo luogo, il team ha analizzato i metaboliti prodotti nell’intestino di topi anziani e ne ha individuati cinque che sembrano in grado di indurre l’espressione di un gene chiamato S100A8, che aiuta la microglia a percepire i cambiamenti nel cervello.
Di questi metaboliti, l’isoamilamina, che viene rilasciata nell’intestino dai batteri Ruminococcaceae, è risultata in grado di oltrepassare la barriera ematoencefalica.
I ricercatori hanno inoltre scoperto che nei topi l’isoamilamina diventa sempre più comune con l’invecchiamento e che l’aggiunta di questo metabolita alle cellule della microglia isolate da topi giovani innesca il processo di morte cellulare programmata.
Ulteriori esperimenti hanno poi mostrato che l’isoamilamina si lega al promotore di S100A8, che ne controlla l’espressione, consentendo a una proteina specifica di legarsi a questa sequenza di DNA e di innescare così l’espressione di S100A8.
Rispetto ai roditori non trattati, i topi giovani a cui è stata somministrata isoamilamina hanno ottenuto risultati peggiori nei test che misurano le capacità comportamentali e cognitive dell’animale.
Ripristino della memoria
Per bloccare il legame tra isoamilamina e S100A8, i ricercatori hanno studiato diversi oligonucleotidi di RNA, arrivando a identificarne uno, denominato S100p1-G, che potrebbe competere con l’isoamilamina per il legame con il promotore di S100A8, impedendo così l’attivazione del gene.
La riduzione dell’attività dell’isoamilamina grazie a S100p1-G ha inibito il declino cognitivo nei topi. S100p1-G ha quindi il potenziale per inibire la perdita di memoria e le difficoltà di apprendimento mediate dall’isoamilamina durante l’invecchiamento.
Conclusioni
«I risultati ottenuti non consentono solo lo sviluppo di una terapia personalizzata per ritardare l’invecchiamento, ma hanno anche il potenziale per cambiare il panorama terapeutico per molte condizioni neurologiche e non grazie all’utilizzo di oligonucleotidi in grado di modificare l’attività dei metaboliti intestinali», concludono i ricercatori.