È una storia di mare, di migrazioni e di sesso tra batteri quella che state per leggere. È la storia di una sequenza di DNA che da un batterio marino è “migrata” in un batterio intestinale dei giapponesi. Per poi fare il giro del mondo.
Di fronte alle enormi quantità – stimabili in migliaia di miliardi – di batteri, virus, miceti e archei che popolano un ecosistema estremamente dinamico ma racchiuso in uno spazio limitato come l’intestino, è persino difficile immaginare il numero elevato di interazioni che può avvenire tra i componenti di questa biomassa saprofita.
Oggi sappiamo che, oltre ad alcune malattie comprese quelle metaboliche, a minacciare la complessità e la stabilità del microbiota intestinale sono la genetica, la modalità di nascita – parto naturale o cesareo – l’allattamento al seno, la dieta, l’attività fisica, il ricorso ad alcuni farmaci (in particolare gli antibiotici), ma anche fattori come lo stress, la collocazione geografica e le condizioni igieniche.
Ben tre di questi fattori – la genetica, la dieta e la collocazione geografica – sono coinvolti in una delle interazioni più interessanti e curiose tra quelle che si sono verificate tra le specie microbiche presenti nel tratto intestinale e l’ambiente esterno: quella cioè che attribuisce al Bacteroides plebeius, detto anche Phocaeicola plebeius, capacità metaboliche tanto preziose quanto inusuali.
Partiamo dai riferimenti anagrafici, che possono creare qualche incomprensione…
«Sono stato individuato ufficialmente nel 2005 da un team giapponese (1) come Bacteroides plebeius, poi nel 2019 sono stato definito Phocaeicola plebeius nella revisione tassonomica del taxa cui appartengo, i Bacteroidetes (2), e tuttora in letteratura mi vengono attribuiti entrambi i nomi, ma mi è indifferente. Vivo abitualmente nel microbiota intestinale di alcune popolazioni, in particolare di quelle d’origine giapponese».
Ed è appunto legato alla cucina orientale il principale quanto insolito beneficio che la sua presenza comporta per l’organismo ospite…
«In effetti è così. Con la mia presenza favorisco la digestione della Porphyria – nota anche come alga nori – un tipo di alga rossa utilizzata per avvolgere il riso e il pesce nei maki di sushi, ma impiegata anche per arricchire zuppe e minestre tradizionali. Estremamente diffusa in Giappone e in Oriente in genere, come tutte le alghe anche questa presenta una peculiarità che la differenzia dalle piante terrestri: i carboidrati che la compongono sono ricoperti di molecole di zolfo e richiedono quindi enzimi speciali per scomporli e metabolizzarli. Nel mio patrimonio genetico dispongo però di un gene che codifica per la β-porfiranasi-A, che idrolizza i legami dei carboidrati delle alghe rosse e in questo modo attribuisco all’ospite la capacità di scomporre i carboidrati solfati derivati dalla digestione di queste alghe. In pratica, aiuto a digerire il sushi e altri piatti della cucina orientale».
A parte gli appassionati di cucina esotica, perché questa capacità sarebbe importante?
«Chiamata anche lattuga di mare, Porphyra tenera o Porphyra yezoensis, l’alga nori appartiene alla classe delle Rodoficee e se ne conoscono 70 specie. Rappresenta un nutriente povero di grassi e carboidrati che comporta solo 35 calorie ogni 100 grammi. Per contro è ricca di proteine, vitamine e minerali ed è una fonte preziosa di omega 3, tanto che viene considerata un “superfood” nell’accezione positiva di questo termine così abusato. I suoi benefici vanno infatti dalle proprietà antitrombotiche e ipocolesterolemizzanti alla stimolazione della sintesi ormonale, alla prevenzione del cancro del colon alla protezione dell’integrità cutanea. C’è dell’altro – per esempio si sta studiando la possibilità di trarne farmaci antitumorali d’origine naturale (3) – ma non spetta a me “vendere” i vantaggi di quest’alga: qualsiasi nutrizionista li può confermare, io mi limito a consentirne il metabolismo appropriato».
Com’è possibile che un batterio da terraferma disponga della capacità di digerire un vegetale proveniente dal mare? E come è stata scoperta questa sua dote?
«È una storia tanto lunga quanto avvincente. Tutto parte dal lontano passato, quando le alghe venivano consumate crude e contenevano inevitabilmente un carico elevato di microrganismi. Tra questi c’era anche un batterio marino, lo Zobellia galactanivorans, in possesso di un patrimonio genico in grado di codificare per gli enzimi che scompongono i particolari polisaccaridi presenti nella parete cellulare delle alghe marine. Lo Zobellia non è capace di sopravvivere nel tratto digestivo per cui il nostro incontro è stato piuttosto fugace, ma devo ammettere che ha dato un significato diverso alla mia esistenza: da quell’incontro fortuito ho infatti acquisito la capacità di digerire l’alga rossa e con me l’ha acquisita chi mi ospita. Sembra si sia trattato di un trasferimento genico orizzontale – un fenomeno piuttosto comune tra i batteri – anche se, secondo approfondimenti recenti, questo passaggio potrebbe essere stato favorito anche da ulteriori fattori (4). La scoperta di questo viaggio straordinario dall’oceano all’intestino umano è piuttosto recente – risale a poco più di dieci anni fa – e in quell’occasione (5) è stato anche accertato che i geni marini capaci di digerire le alghe sono stati trasmessi dai genitori ai figli e alle generazioni successive assieme ai batteri intestinali che li avevano incorporati: io sono appunto al centro di questo processo».
Però oggi troviamo questi geni anche nell’intestino delle popolazioni occidentali…
«Questo è un grande interrogativo che non ha ancora trovato risposte certe. È vero che a partire dagli anni Sessanta l’alga nori viene consumata sempre più spesso anche in Occidente e da qualche tempo si sta cercando di accertare se i geni con l’enzima porfiranasi sono arrivati così lontano, ma mancano dati definitivi. In ogni caso, credo sia improbabile che si verifichi di nuovo un trasferimento genico come quello che mi ha coinvolto. Oggi, infatti, l’alga nori viene prodotta tramite colture idroponiche ed è raro che venga consumata cruda, anche se bisogna sempre tenere presente una regola: una volta che il passaggio è avvenuto per l’ospite iniziale, può sempre coinvolgere altri individui. E poi non bisogna dimenticare che le popolazioni asiatiche non sono le sole a utilizzare da tempo le alghe a scopo alimentare: lo fanno per esempio anche i gallesi e gli irlandesi, che con le grandi migrazioni di due secoli fa potrebbero aver portato Oltreatlantico i geni con l’enzima porfiranasi. In fin dei conti, credo si possa citare quanto affermava a metà Ottocento il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach: “Siamo quello che mangiamo” rappresenta infatti un’asserzione estremamente valida anche oggi».
References
- Kitahara M, Sakamoto M, Ike M, Sakata S, Benno Y. Bacteroides plebeius sp. nov. and Bacteroides coprocola sp. nov., isolated from human faeces. Int J Syst Evol Microbiol. 2005;55(Pt 5):2143-2147. doi:10.1099/ijs.0.63788-0
- García-López M, Meier-Kolthoff JP, Tindall BJ, et al. Analysis of 1,000 Type-Strain Genomes Improves Taxonomic Classification of Bacteroidetes. Front Microbiol. 2019;10:2083. Published 2019 Sep 23. doi:10.3389/fmicb.2019.02083
- Pejin B, Jovanovic KK, Savic AG. New antitumour natural products from marine red algae: covering the period from 2003 to 2012. Mini Rev Med Chem. 2015;15(9):720-730. doi:10.2174/1389557515666150511152251
- Pudlo NA, Pereira GV, Parnami J, et al. Diverse events have transferred genes for edible seaweed digestion from marine to human gut bacteria. Cell Host Microbe. 2022;30(3):314-328.e11. doi:10.1016/j.chom.2022.02.001
- Hehemann JH, Correc G, Barbeyron T, Helbert W, Czjzek M, Michel G. Transfer of carbohydrate-active enzymes from marine bacteria to Japanese gut microbiota. Nature. 2010;464(7290):908-912. doi:10.1038/nature08937