Il supplemento di fibre alimentari modifica la composizione batterica aumentando l’espressione di ceppi inclusi nel loro metabolismo come Bifidobacterium e Lactobacillus. Influenzata in maniera positiva soprattutto l’attività dei geni coinvolto nella degradazione dell’inositolo. Nessun cambiamento significativo è stato osservato nell’abbondanza di SCFAs totale, probabilmente per il ridotto periodo di osservazione.
È quanto conclude lo studio di Andrew Oliver e colleghi delle University of California (Irvine, USA) di recente pubblicato su mSystems.
Fibre, cibo industriale e dieta occidentale
Con l’avvento della società moderna, e più precisamente della cosiddetta “dieta occidentale”, il consumo di fibre è diminuito drasticamente essendo in buona parte sostituito da cibo processato.
Alla loro riduzione si abbina però un aumento di patologie come diabete di tipo 2, scompensi cardiovascolari, tumori gastrointestinali.
Per fibre alimentari si intende una miscela di polisaccaridi per la conversione della quale l’uomo, come specie, non ha il corredo enzimatico. Il loro metabolismo è infatti compito del microbiota intestinale, in particolare di quello del colon.
Tra i prodotti troviamo gli acidi grassi a catena corta (SCFAs) come propionato, acetato o butirrato dei quali sono certi numerosi benefici per la salute dell’ospite. Promosse sono infatti l’integrità della barriera intestinale, il sistema immunitario ed inibita l’attività infiammatoria.
La maggior parte degli studi disponibili è però basata sul supplemento singolo, quasi mai su quello di più fibre o cibi completi, limitando la panoramica dei loro reali effetti sulla comunità batterica.
Lo studio sulla dieta ricca di fibre
A tal proposito, i ricercatori americani, dopo aver raccolto informazioni sulla loro dieta di base e con opportuni pasti bilanciati e controllati, hanno aumentato, a 20 giovani sani, l’apporto giornaliero di fibre fino a 40 o 50 g/die (25 g è considerato il gold standard quotidiano) per due settimane.
A che scopo? Valutare se una dieta particolarmente ricca in fibre alteri in generale il microbioma e/o ceppi particolari e se questo si rifletta anche in un cambiamento del profilo metabolico legato agli SCFAs.
Vediamo cosa è emerso dall’analisi metagenomica e dal confronto dei campioni fecali raccolti nel pre e post-intervento.
Il supplemento di fibre ha alterato significativamente la composizione del microbioma intestinale. In particolare:
- l’alpha diversity è leggermente diminuita durante l’intervento. Molto più marcato invece il cambiamento di beta-diversity con, quindi, alterazioni nella composizione batterica
- Lachnospiraceae ha mostrato associazione significativamente negativa con l’introito di fibre, così come Blautia e Ruminococcus. Andamento contrario per Bifidobacterium, Bacteroides, e Prevotella a cui si aggiungono Coprococcus sp. e Anaerostipes hadrus (questi ultimi senza raggiungerne la significatività)
- dei 105 generi identificati, Bifidobacterium è risultato essere quello più influenzato. B. adolescentis, B. biavatii, B. breve, B. longum, and B. ruminantium in particolare hanno mostrato un marcato incremento. Minore l’impatto invece per le specie meno abbondanti
- Bifidobacterium ha mostrato correlazione positiva con l’espressione di Lactobacillus, negativa con quella di Roseburia e Ruminococcus suggerendo una certa interazione tra taxa
Concentrandosi quindi sul genere Bifidobacterium se ne è poi analizzato il profilo dei geni coinvolti nel metabolismo delle fibre. I geni coinvolti nella degradazione dell’inositolo hanno in effetti mostrato un incremento di espressione con l’aumento delle fibre.
Nessun cambiamento significativo invece nella concentrazione effettiva di SCFAs nonostante l’attività metabolizzante dei ceppi aumentati.
Conclusioni
Come suggeriscono gli stessi ricercatori, il ridotto periodo di studio potrebbe però aver precluso questo risultato sottolineando la necessità di ulteriori approfondimenti volti a ottimizzare le tempistiche e le modalità di intervento.