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Sensibilità al glutine: disbiosi intestinale tra le possibili cause

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Sensibilità al glutine: disbiosi intestinale tra le possibili cause

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All’origine della cosiddetta sensibilità al glutine non celiaca ci potrebbe essere uno specifico profilo disbiotico che comporta un’aumentata permeabilità intestinale.

Questo è in sintesi quanto emerge dalla revisione di letteratura pubblicata il mese scorso su Nutrients e condotta da Valentina Leccioli, Mara Oliveri e Paola Rossi dell’Università degli studi di Pavia, insieme a Marcello Romeo e Massimiliano Berretta.

La sensibilità al glutine, da distinguere da celiachia e forme allergiche, è una patologia in ampio aumento, ma dall’eziologia e dalla linea di trattamento ancora poco chiare.

Tra le cause più gettonate troviamo un’aumentata permeabilità della barriera intestinale, l’introduzione attraverso la dieta di mediatori pro-infiammatori e l’alterazione del microbiota fisiologico.

Si tratta quindi di un disordine multifattoriale, probabilmente temporaneo e preventivabile e non strettamente legato al glutine in sé.

Data l’incertezza che ancora oggi avvolge questa malattia, il gruppo di ricercatori italiani ha cercato di raccogliere le evidenze disponibili sul disturbo integrandole per la prima volta con le recenti evidenze sul microbioma intestinale allo scopo di tracciare un quadro quanto più completo possibile riguardo le cause che comportano l’instaurarsi di questo disordine intestinale, l’efficacia e i rischi dei relativi trattamenti in uso e possibili proposte per studi futuri.

La sensibilità al glutine è stata identificata per la prima volta nel 1978 e, nonostante l’iniziale scetticismo, nel 2012 è stata inclusa nei disordini correlati al glutine come patologia a sé.

La diagnosi di sensibilità al glutine si fa per esclusione

Infatti, mentre la celiachia è una malattia cronica, autoimmune, che coinvolge principalmente il duodeno di soggetti predisposti e l’allergia ha basi immunologiche, la sensibilità è per definizione “una condizione nella quale i sintomi sono innescati dall’ingestione di glutine in assenza di specifici anticorpi anti-glutine oltre che di atrofia dei villi, con livelli di HLA (Human Leukocyte Antigen) e di AGA (anticorpi anti-gliadina) variabili.”

Colpisce soprattutto le giovani donne ed è caratterizzata da sintomi molto diversi tra loro, non strettamente gastrointestinali, dalla durata e intensità variabile, ma in genere transitori. Tra i principali ricordiamo dolore addominale, disordini intestinali e gonfiore ma anche mal di testa, dolori muscolo-articolari, eczema e rush cutanei, depressione e anemia.

La diagnosi di sensibilità al glutine si fa per esclusione delle patologie analoghe quali appunto celiachia, allergia, sindrome dell’intestino irritabile o colite ulcerosa.

Non esiste di fatto un esame specifico o un marcatore identificativo per questo  quadro clinico quindi molto spesso viene scambiata per uno degli altri disordini intestinali o sottovalutata.

A questo proposito è stato proposta di recente una modalità diagnostica basata su un test che prevedeva, in doppio cieco, la somministrazione di glutine alternata a placebo.

In questo modo si poteva più facilmente delineare il grado effettivo di implicazione del glutine e, visto che non si era a conoscenza se quello che si andava ad assumere fosse il controllo o il prodotto con glutine, di evitare la distorsione dei risultati a seconda delle aspettative.

Questa valutazione è stata tuttavia classificata come inferiore ai livelli di qualità standard per cui non adottata.

Secondo lo studio di Di Liberto et al. invece sarebbe possibile identificare la patologia attraverso una biopsia non a livello del duodeno ma nel colon data la sintomatologia molto simile alla “sindrome dell’intestino irritabile” che ha sede, appunto, nel colon.

Il bias diagnostico al quale ci troviamo di fronte va a riflettersi sulla salute del paziente il quale si vedrà sottoposto, volontariamente o meno, a una dieta gluten-free senza averne realmente bisogno o a continuare con quella normale senza riuscire a capire la causa del suo malessere.

Come per celiachia e forme allergiche, la dieta senza glutine o gluten-free sembrerebbe infatti l’unica opzione di trattamento finora disponibile dato che non sono stati determinati ancora tutti i fattori che rientrano nello sviluppo della condizione di sensibilità.

Nonostante permetta un significativo miglioramento della sintomatologia, si tratta pur sempre di una dieta a restrizione nutrizionale non del tutto bilanciata e inadeguata in termini di micro e macro-nutrienti, oltre che costosa e difficile da seguire visto che il glutine, anche se in minime quantità, è presente nella maggior parte dei cibi soprattutto se confezionati.

Sul fatto che sia il metodo migliore con il quale intervenire, in particolar modo se protratto nel tempo, è in corso un dibattito.

Disbiosi e permeabilità intestinale fattori coinvolti nella sensibilità al glutine

Ma quali sono i fattori principali che determinano l’insorgenza della sensibilità al glutine?

Sicuramente non è tutta colpa del glutine. Molti altri attori concorrono nel promuovere e aggravare il quadro clinico.

Prima fra tutte l’aumento della permeabilità intestinale, come dimostrato da Uhde et al.: attraverso un rilassamento delle giunzioni epiteliali, metaboliti normalmente presenti solo a livello intestinale passano in circolo andando ad attivare la risposta immunitaria innata e adattativa con conseguente inizio di infiammazione.

Tra questi maggiore importanza la sembrerebbero avere i LPS (lipopolissacaridi) e gli ATI (α-amylase trypsin inhibitors). Questi ultimi appartengono alla famiglia delle albumine idrosolubili e sono di fatto proteine compatte e resistenti all’attività delle proteasi fisiologicamente deputate alla loro metabolizzazione.

Sono inoltre buoni attivatori di cellule dendritiche, macrofagi e monociti favorendo in questo modo la risposta immunitaria e, di conseguenza, anche la maturazione e il rilascio di citochine pro-infiammatorie quali IL-1β, IL-6, TNFα, IL-8 e MCP-1.

Come suggerito da Schuppan et al., in individui predisposti o con infiammazione intestinale già in atto, l’introduzione di normali livelli di ATI (0.5-1 gr/die) potrebbe aggravare la condizione di allerta immunitaria non solo nel tratto gastrointestinale, ma anche in altri distretti come ad esempio i linfonodi o gli organi linfatici, spiegando dunque i sintomi extra-intestinali.

I lipopolisaccaridi invece sono componenti fisiologici della barriera di batteri Gram negativi con proprietà infiammatorie che, in condizioni normali, sono però completamente inattivati dagli acidi gastrici e da IAP (intestinal alkaline phosphatase).

Un’alterazione della barriera comporta tuttavia a una riduzione di IAP disponibile con conseguente aumento di LPS attivi e liberi di trasferirsi nel torrente circolatorio comportando ciò che è stato precedentemente descritto.

In pazienti sensibili al glutine sono infatti risultati elevati i livelli plasmatici dell’anticorpo specifico per LPS, LBP, e di anti-flagellina IgM-IgG oltre che quelli dei marcatori CD14.

Anche i FODMAPs, cioè polioli e oligo-/di-/mono-saccaridi fermentati, hanno suscitato dubbi relativi al loro coinvolgimento.

Li si trova nel grano e nei suoi derivati, nei legumi, nella frutta, nella verdura, nel latte e nel miele. Nonostante la loro ingestione comporti normalmente distensione addominale data la loro attività osmotica, le evidenze in materia sembrerebbero affermare come siano fattori protettivi dall’infiammazione e non una causa.

È tuttavia possibile che con la loro attività distensiva concorrino ad aumentare lo stato di alterazione intestinale aggravando il quadro in soggetti già compromessi spiegando quindi il persistere dei sintomi in alcuni soggetti nonostante la dieta “gluten-free”.

Probiotici e sensibilità al glutine

Se il punto di partenza sembra essere la barriera intestinale, cosa si potrebbe fare per ristabilire la sua normale funzionalità?

Un approccio valido sembrerebbe essere quello dei probiotici. Un microbiota intestinale sano di norma è composto prevalentemente da specie batteriche appartenenti ai phyla Firmicutes e Bacteroidetes le quali, oltre ad adempiere a funzioni strutturali e immunologiche, concorrono anche nella produzione di diversi metaboliti.

Tra questi, gli acidi grassi a catena corta o SCFAs sembrerebbero fondamentali nel favorire e mantenere l’integrità della barriera intestinale. Il butirrato in particolar modo apporta il maggior contributo in termini energetici e di produzione di mucina protettiva sia nei confronti dell’epitelio stesso sia nel prevenire la traslocazione di patogeni in circolo.

Tra i maggiori produttori di butirrato troviamo i Clostridia del cluster IV e IXa, appartenenti al phylum Firmicutes, e Bifidobacterium bifidumBifidobacterium longum e Bifidobacterium adolescentis tra i bifidobatteri.

In pazienti sensibili al glutine i livelli di butirrato sono infatti risultati inferiori alla norma e questo può tradursi in un’alterata espressione a monte delle specie batteriche fondamentali per la sua produzione che comporta, di conseguenza, l’alterazione di permeabilità osservata in maniera trasversale in tutti i soggetti colpiti. Bassi livelli di Firmicutes e/o Bifidobacterium sembrerebbero inoltre determinare una riduzione di IAP disponibili e quindi insufficiente detossificazione di componenti del lume intestinale, fra i quali LPS.

Si tratta dunque di un circolo vizioso nonostante, in base a queste ultime considerazioni, un supplemento mirato di probiotici e prebiotici, accompagnato da una dieta bilanciata e da un corretto stile di vita, potrebbe andare a migliorare la disbiosi che sta alla base della sensibilità.

Quali sono dunque secondo gli autori le proposte di ricerca per il futuro?

Approfondire l’associazione tra sensibilità al glutine e disbiosi intestinale con particolare attenzione ai livelli di Firmicutes e Bifidobacteria, indagare il ruolo di IAP e butirrato oltre che il grado di implicazione della permeabilità della barriera come fattore predisponente e la presenza di marcatori specifici per questa patologia.

Potrebbe inoltre essere importante arrivare a un trattamento differente, non basato su una misura di restrizione ma su una di implementazione, ad esempio a base di probiotici.

Questa revisione della letteratura sottolinea quindi come sia alta la necessità di ulteriori studi che vadano a delineare in modo più completo questa patologia sempre più in aumento e ancora poco conosciuta.

Silvia Radrezza
Laureata in Farmacia presso l’Univ. degli Studi di Ferrara, consegue un Master di 1° livello in Ricerca Clinica all’ Univ. degli Studi di Milano. Borsista all’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS dal 2017 al 2018, è ora post-doc presso Max Planck Institute of Molecular Cell Biology and Genetics a Dresda (Germania).

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