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Studio Nature rivela: un farmaco su quattro altera il microbiota intestinale

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Studio Nature rivela: un farmaco su quattro altera il microbiota intestinale

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Una buona parte dei farmaci che prendiamo abitualmente per trattare patologie non intestinali sono in grado di alterare il microbioma contribuendo non soltanto alla comparsa di eventi avversi antibiotico-simili, con conseguente aumento della resistenza batterica, ma anche alla variabilità della risposta terapeutica stessa.

È Nature a darne la notizia pubblicando ieri i risultati di uno studio condotto da Lisa Maier dell’European Molecular Biology Laboratory, Heidelberge (Germania), e colleghi su oltre 1.000 farmaci di uso corrente.

È ben noto ormai come ogni medicinale, sebbene assunto seguendo le giuste indicazioni e dosi terapeutiche, si porti dietro anche rischi o effetti collaterali e, tra questi, quelli gastrointestinali sono con ogni probabilità quelli più comuni.

Nonostante la loro frequenza sappiamo ancora poco su come questi disturbi, in particolar modo a livello di stomaco ed esofago, si riflettano nella componente batterica intestinale. Questo studio di coorte ha dimostrato per la prima volta un’effettiva correlazione tra farmaci comuni, usati anche saltuariamente, e cambiamenti del microbiota intestinale.

Analizzati gli effetti di oltre 1.000 farmaci sul microbiota intestinale

Sono stati analizzati attentamente gli effetti in termini di crescita e proliferazione che 1.079 principi attivi regolarmente approvati e commercializzati, appartenenti a tutte le principali classi terapeutiche e somministrati alla concentrazione standard di 20µM, comportano nei 40 filoni batterici maggiormente presenti in un microbiota sano.

Nel dettaglio, dei 1.079 farmaci totali, 156 rientrano nella categoria degli antibatterici, 88 in quella degli anti-infettivi e i restanti 835 appartengono a classi diverse, ma aventi tutte come target le cellule umane (antidiabetici, antipsicotici, anti-acidi, ecc.).

È stata perciò valutata la variazione di densità batterica nel tempo in apposite piastre di coltura classificando come farmaci ad “attività anticommensale” quelli che mostravano di inibire la crescita di almeno una specie.

Com’era ragionevole supporre la categoria degli antibatterici ha dimostrato l’attività più significativa nel contrastare la proliferazione batterica con un 78% di farmaci attivi. Il restante 22% ha subito inattivazione a causa del medium usato per la coltura o delle condizioni anaerobie previste dall’esperimento. Per quanto riguarda invece gli anti-infettivi, il 27% ha dimostrato attività commensale.

Risultati forse più inaspettati li troviamo nell’ultima categoria di farmaci, ovvero quelli progettati per avere come bersaglio cellule umane e non batteriche.

In questo gruppo, ben 203 principi attivi, il 24%, hanno inibito la proliferazione, la maggior parte solamente nei confronti di una singola specie, mentre per 40 di essi l’attività si è confermata per almeno 10 differenti batteri.

Anche la ricchezza del microbiota intestinale ha mostrato di rispondere in modo diverso ai farmaci. A tal proposito, Roseburia intestinalis, Eubacterium rectale e Bacteroides vulgatus hanno presentato la maggiore suscettibilità mentre i y-Proteobacteria la migliore resistenza.

Visto che le specie con elevata abbondanza relativa in un microbiota fisiologico hanno riportato la più spiccata sensibilità ai medicinali con target cellulare umano, possiamo ipotizzare che l’impatto che questi ultimi hanno sulla componente batterica è non solo rilevante, ma anche diretto verso le specie chiave per la nostra salute, quali ad esempio i produttori di SCFAs, gli acidi grassi a catena corta prodotti da alcuni batteri intestinali.

Antiulcera, antipsicotici e chemioterapici

Dopo aver valutato questi effetti in vitro, i ricercatori hanno voluto trovarne conferma comparandoli con i dati metagenomici disponibili e provenienti da ampie coorti di soggetti in trattamento con farmaci già considerati nel loro campione iniziale.

In base a precisi e predeterminati criteri di inclusione, sono stati dunque considerati i risultati di studi condotti su inibitori di pompa protonica (PPIs), antipsicotici (AAPs) e su altre 7 classi minori.

Tutti e tre i farmaci PPIs considerati inizialmente dal team di ricerca tedesco hanno riportato gli stessi effetti antibatterici ad ampio spettro emersi dallo studio clinico con gli stessi principi attivi.

Risultati concordanti sono stati riscontrati anche per AAPs. Lo studio clinico ha infatti mostrato come i pazienti in trattamento con antipsicotici presentassero una riduzione nell’espressione di Akkermansia muciniphila e, in linea con quanto appena affermato, i dati dello screening in vitro hanno sottolineato una notevole sensibilità, sempre di A. muciniphila, in risposta a AAPs. Nonostante tutte le limitazioni del caso, le evidenze in vitro hanno perciò trovato trasposizione in vivo.

Effetti collaterali simili a quelli degli antibiotici

Ci si è poi concentrati sugli effetti collaterali comparando quelli relativi prettamente agli antibiotici e quelli dovuti dagli altri farmaci considerati.

Dall’incrocio dei dati è emerso come gli eventi correlati agli antibiotici sono comuni anche ai farmaci non-antibiotici, ma con attività anticommensale.

Tra questi, antimetaboliti, antipsicotici e bloccanti del canale del calcio sono i principali. I ricercatori, considerando il loro meccanismo d’azione, hanno quindi cercato di spiegare come dal sistema immunitario o nervoso passino ad avere un effetto anche a livello batterico.

Ad esempio, per gli antimetaboliti, usati principalmente come immunosopressori o chemioterapici, potrebbe esserci una condivisione di target tra le cellule umane e certi tipi di batteri che ne rimarrebbero dunque colpiti in egual modo.

Per gli antipsicotici invece la risposta è ancora più confusa e, probabilmente, l’inibizione batterica non è altro che una conseguenza indiretta.

Farmaci che aumentano la resistenza batterica

Che i farmaci con target cellulare umano promuovano resistenza batterica al pari di un uso scorretto di antibiotici è l’ultima importante evidenza emersa da questo studio. E sembrerebbe peraltro esser estesa sia a Gram+ che Gram -.

Per determinarlo i ricercatori hanno prodotto una specie di Escherichia coli mutato nel fattore di trascrizione TolC, noto per esser la principale via di espulsione antibiotica di E. coli oltre che di altri batteri e che determina perciò, in condizione fisiologiche, la resistenza.

Le linee di E. coli prive di TolC hanno difatti presentato non soltanto una maggiore sensibilità agli antibiotici, ma anche alle altre classi di farmaci.

Tuttavia, questo duplice cambio di risposta non si è verificato in tutte le specie batteriche testate. Clostridium difficile e Parabacteroides distansonis hanno mostrato forte resistenza antibiotica, ma più debole relativamente al resto dei farmaci.

I fattori coinvolti nel determinare una non risposta terapeutica in generale sono molti, non solo TolC, in base a una parziale sovrapposizione di meccanismi, come in certi casi l’acquisizione di resistenza antibiotica sia da attribuire all’assunzione di farmaci tipicamente indirizzati a cellule umane.

Per riassumere dunque possiamo affermare che:

  • oltre un quarto dei farmaci non-antibiotici più comunemente prescritti abbiano effetti nel modulare almeno una specie batterica intestinale;
  • gli antipsicotici sono la classe di farmaci che più di ogni altra mostra attività anticommensale;
  • l’assunzione di determinati farmaci non-antibiotici comporta la comparsa di effetti collaterali antibiotico-simili nonché la resistenza batterica di alcune specie.

Questo studio apre quindi la strada a ulteriori approfondimenti in vivo, del resto già preventivati anche dagli stessi autori, attraverso i quali sarà possibile capire meglio non solo come potenziare l’efficacia e la sicurezza di determinati farmaci ma anche come ridurre la resistenza antibiotica.

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