Un metabolita del microbiota intestinale, la desaminotirosina (DAT), sembra in grado di proteggere l’organismo dall’influenza.
I ricercatori della Washington University School of Medicine hanno recentemente pubblicato su Science uno studio in merito a questo composto, dimostrando la sua capacità di impedire l’azione virulenta attraverso la modulazione della produzione di interferoni di tipo 1 (IFN) e diminuendo i danni subiti dai polmoni.
Sono ormai numerosi le ricerche che hanno indagato e confermato l’esistenza di un’interazione tra il microbiota enterico e il sistema immunitario dell’organismo ospitante.
In conseguenza di tale relazione, la patogenicità dei virus dell’influenza dipende anche dalla composizione batterica intestinale, sebbene il modo in cui quest’ultima eserciti una funzione protettiva rimanga ancora una questione aperta.
È molto probabile che a entrare in gioco siano specifici metaboliti batterici, i quali agirebbero contro l’infezione virale.
Influenza e microbiota: il ruolo dell’interferone di tipo 1
Per cercare di far luce sull’argomento, Ashley Steed e i suoi collaboratori hanno concentrato i propri sforzi sull’interferone di tipo 1, un’importante pathway di segnalazione nella risposta immunitaria ai virus.
La scelta non è stata casuale: precedenti studi hanno già dimostrato che il microbiota può regolare il signaling durante le infezioni da patogeni.
È stata quindi verificata l’ipotesi che i cambiamenti nei livelli di IFN di tipo 1, mediati dal microbiota intestinale, abbiano un impatto sullo sviluppo dell’influenza.
Per avviare lo studio gli autori hanno utilizzato un modello murino Irgm1-/- (il quale ha livelli di interferone di tipo 1 maggiori rispetto ai topi del gruppo di controllo) riuscendo così a valutare cosa accade in presenza di un maggiore signaling dell’interferone nei giorni precedenti la malattia.
Dopo avere infettato i topi con il virus influenzale, si è osservato che, mentre nel gruppo di controllo la sopravvivenza si attestava attorno al 50%, nel gruppo Irgm1-/- la mortalità e la perdita di peso corporeo erano minime.
Inoltre i polmoni di Irgm1-/- , sempre rispetto al controllo, mostravano una simile carica virale, così come sono risultate comparabili la cinetica e la localizzazione di antigeni virali. È stata riscontrata inoltre una ridotta trascrizione virale e i danni all’epitelio e apoptosi sono stati inferiori.
Dal sequenziamento RNA del tessuto polmonare è risultato un maggiore livello di infiammazione nel gruppo di controllo, laddove nei polmoni dei topi Irgm1-/- sono stati rilevati ridotti livelli di alcune citochine e chemochine associate all’influenza grave nell’uomo: TNFalfa, MIP-1, interleuchina-10 (IL-10), MCP-1 e l’antagonista umano ricombinante del recettore dell’interleuchina-1 (IL-1Ra).
Desaminotirosina, metabolita dei flavonoidi
Una volta verificato il ruolo dell’IFN di tipo 1, i ricercatori hanno cercato specifici prodotti del metabolismo batterico in grado di potenziarne il pathway di segnalazione.
Tra gli 84 esaminati, è stato deciso di approfondire il ruolo del metabolita desaminotirosina (DAT).
La desaminotirosina è il risultato della degradazione dei flavonoidi, che comprendono un gruppo di composti polifenolici presenti in alcuni cibi come frutta e verdura fresca, tè, vini, cacao e derivati.
Alcuni batteri dell’intestino umano producono DAT dal metabolismo dei flavonoidi, ritenuti capaci di avere effetti immunoregolatori, e degli aminoacidi.
In laboratorio, gli autori dello studio hanno osservato che nelle feci e nel sangue dei topi wild-type vi erano piccole quantità di DAT.
Nei topi trattati per due settimane con un mix di vancomicina, neomicina, ampicillina e metronidazolo (VNAM), invece, il composto era quasi assente.
Tuttavia, se agli stessi topi VNAM si somministravano 200 mM di DAT per una settimana, si registrava un aumento dell’attività dell’interferone di tipo 1 nel sangue. Inoltre il trattamento con DAT incrementava l’espressione nei polmoni di Oas2 e Mx2, geni stimolati proprio dall’IFN di tipo 1.
I ricercatori hanno quindi suddiviso gli animali in quattro gruppi (controllo, DAT, VNAM, DAT+VNAM) e hanno inoculato il virus dell’influenza, misurando la sopravvivenza nei 14 giorni successivi.
I risultati migliori si sono rilevati nel gruppo di topi non trattati con antibiotici a cui era stata somministrata la desaminotirosina, seguiti dal gruppo DAT+VNAM e dal gruppo di controllo. Ultimi, con una percentuale di sopravvivenza prossima allo zero, gli animali a cui erano stati somministrati solo antibiotici.
Ipotizzando che l’aumento dell’attività dell’IFN di tipo 1 dovuta alla desaminotirosina dipendesse da un meccanismo simile a quello visto nel caso dei topi Irgm1-/-, gli scienziati hanno identificato un batterio del microbiota fecale umano, sensibile a metronidazolo e vancomicina, in grado di metabolizzare il composto a partire dai flavonoidi: Clostridium orbiscindens.
Nel confronto tra questo batterio, Clostridium leptum ed Enterococcus faecalis, solo il primo è stato in grado sia di metabolizzare i flavonoidi, sia di proteggere i topi dall’influenza ripristinando i livelli di DAT.
I risultati sottolineano ancora una volta l’importanza del microbioma intestinale umano. Alcuni tra i suoi batteri, infatti, sarebbero capaci di proteggere l’organismo dall’azione del virus influenzale. Nondimeno emerge anche l’importanza dell’alimentazione: i microrganismi, per modulare la risposta del sistema immunitario nella protezione dall’influenza, devono essere supportati da una dieta ricca di flavonoidi che andranno a formare il necessario substrato batterico.