Grazie alla combinazione di batteriofagi e probiotici è possibile ridurre il rischio di infezioni in ambienti ospedalieri diminuendo nel contempo il rischio di sviluppo di microrganismi resistenti e salvaguardando l’ambiente. Questo è quanto viene descritto nello studio di Maria D’Accolti e colleghi – afferenti a tre atenei Italiani: Ferrara, Udine e il Gemelli di Roma – di recente pubblicato su International Journal of Molecular Sciences.
Microbioma ambientale e rischio di infezioni
È ormai noto che anche gli ambienti all’interno degli edifici hanno un proprio microbioma analogamente agli esseri viventi.
Rispetto agli ambienti naturali, il microbioma di ambienti confinati mostra una ridotta biodiversità e una maggiore presenza di microrganismi resistenti agli antimicrobici (antimicrobial resistance, AMR), essendo composto essenzialmente da microbi di origine umana che crescono sotto la pressione selettiva esercitata dalla disinfezione continua. I microbiomi degli edifici e gli occupanti umani rappresentano un sistema complesso caratterizzato da interazioni reciproche.
Nell’ambiente ospedaliero, queste caratteristiche appaiono particolarmente importanti in quanto la persistente contaminazione da agenti patogeni umani contribuisce all’insorgenza delle infezioni nosocomiali (HAI).
Si stima che nella comunità europea le infezioni nosocomiali colpiscano 4 milioni di persone ogni anno e causino la morte di più di 37.000 pazienti ricoverati. Questi patogeni, sotto la pressione selettiva esercitata dall’uso massiccio e continuo di disinfettanti e farmaci antimicrobici, diventano frequentemente multiresistenti complicando la gestione delle infezioni e aggravando ulteriormente i rischi associati allo sviluppo di nuove infezioni.
La maggior parte dei disinfettanti chimici, oltre ad avere un elevato impatto ambientale, ha un’azione temporanea e contribuisce in modo significativo alla selezione di ceppi resistenti, eliminando, inoltre, anche i microbi potenzialmente benefici. Questi sono stati i presupposti dai quali ha preso le mosse lo studio dei ricercatori Italiani atto a sviluppare nuove strategie di disinfezione efficaci e allo stesso tempo ecosostenibili, basate proprio sull’utilizzo di microrganismi: probiotic cleaning hygiene system
Cosa è il probiotic cleaning hygiene system
La ricerca di approcci innovativi ha portato allo sviluppo di sistemi di igienizzazione a base di probiotici (probiotic cleaning hygiene system o PCHS) che consistono in detergenti ecologici a cui vengono aggiunte spore di microrganismi non patogeni del genere Bacillus. Gli studi hanno dimostrato che un tale sistema potrebbe fornire un controllo efficace di batteri patogeni, funghi e virus (incluso SARS-CoV-2), controllando e riducendo la diffusione delle resistenze e le delle infezioni nosocomiali.
Sulla base di un meccanismo di esclusione competitiva, PCHS fornisce un graduale cambiamento del microbioma ambientale che richiede circa due settimane per raggiungere un equilibrio stabile. Il fattore tempo però potrebbe essere un limite come pure il fatto che l’azione non sia specifica su particolar microrganismi, soprattutto quando si desidera una rapida azione di contrasto contro specifici patogeni (ad esempio, in caso di focolai epidemici o in stanze che ospitano pazienti colonizzati da specifici ceppi batterici).
Per migliorare le caratteristiche di rapidità e specificità del PCHS, gli autori hanno deciso di valutare l’aggiunta di batteriofagi litici, virus caratterizzati da una gamma di ospiti molto ristretta e da un’azione rapida. Grazie a queste caratteristiche, i batteriofagi sono stati già riconosciuti dalla comunità scientifica come agenti efficaci per il controllo biologico contro i patogeni di origine alimentare e vegetale e per la decontaminazione di superfici industriali, strutture agricole e acque reflue. Per questo sono stati anche testati contro i patogeni, antibioticoresistenti e non, associati alle infezioni nosocomiali che contaminano le superfici ospedaliere, come Pseudomonas aeruginosa e Staphylococcus aureus.
Lo studio
Lo studio prevedeva di valutare l’applicabilità e l’efficacia del PCHS all’interno di 2 reparti di medicina generale di due grandi ospedali Italiani. Nello specifico aveva come obiettivo la diminuzione della contaminazione da specie Staphylococcus nelle aree dei bagni, essendo questo batterio il più diffuso negli ospedali. Sono state messe a confronto 3 diverse modalità di disinfezione monitorandone l’efficacia sia in funzione della concentrazione dei batteri associati alle infezioni, in particolare Staphylococcus, sia la comparsa di resistenze. Lo studio si è svolto in 14 settimane durante la pandemia COVID-19 (marzo-giugno 2021) e si è sviluppato in 3 fasi:
Fase T0: il periodo pre-PCHS di 4 settimane, durante il quale gli ospedali hanno mantenuto la convenzionale sanificazione chimica
Fase T1: il periodo PCHS di 4 settimane, durante il quale PCHS ha sostituito la sanificazione chimica
Fase T2: Il periodo PCHSφ di 6 settimane, durante il quale i fagi sono stati aggiunti a PCHS
Considerando l’evento pandemico in corso, durante tutto lo studio era possibile effettuare interventi di disinfezione di emergenza mediante l’utilizzo di disinfettanti con 3% di cloro nel caso di presenza conclamata di pazienti affetti da COVID.
Nonostante alcune differenze tra i dati ottenuti nelle due strutture ospedaliere, dovute probabilmente ad una più che sostanziale differenza di frequenza delle disinfezioni a base di 3% cloro (uso massivo vs uso sporadico), lo studio ha dimostrato:
- una significativa diminuzione della contaminazione da stafilococchi e altri patogeni all’introduzione di PCHS, rispetto a T0,
- una ulteriore riduzione della contaminazione con l’aggiunta a PCHS di fagi anti-stafilococcici Sb-1 (fase T2),
- una diminuzione significativa dei batteri resistenti misurata attraverso la presenza di geni associati a resistenze microbiche nel loro DNA all’introduzione di PCHS (T1),
- una diminuzione ulteriore dei batteri con geni resistenti indotta dall’aggiunta di fagi al PCHS (fase T2),
- l’uso massiccio e contemporaneo di disinfettanti sporicidi può annullare la potenziale efficacia di PCHS/PCHSφ provocando l’inattivazione dei suoi agenti biologici.
Conclusioni
La disinfezione chimica, ampiamente utilizzata durante la pandemia di COVID-19, agisce solo temporaneamente e può promuovere la selezione di ceppi resistenti agli antimicrobici, aggravando così potenzialmente questa preoccupazione.
Al contrario la sanificazione con l’utilizzo di probiotici (PCHS) combinata con l’utilizzo di batteriofagi (PCHSφ) può avere il potenziale per fornire un’eliminazione rapida e stabile sia generale che specifica. Nonostante sia necessario sviluppare ulteriori studi su un campione più ampio di strutture ospedaliere i dati raccolti sull’utilizzo di PCHS e PCHSφ in strutture ospedaliere sono molto incoraggianti, in quanto riducono in modo efficace ed ecosostenibile sia il rischio di infezioni nosocomiali sia lo sviluppo e la diffusione di ceppi resistenti.