Più di 500 uomini hanno già raggiunto lo spazio, ma la maggior parte l’ha fatto per un breve periodo di tempo (<300 giorni). Le nostre conoscenze su come l’ambiente spaziale (microgravità, radiazioni, isolamento, ecc.) influisca sulla salute, fisica e mentale, sono perciò temporalmente ristrette, nonché principalmente concentrate sul sistema cardiovascolare, muscolo-scheletrico, senso-motorio e immunitario. Uno studio recente ha per esempio analizzato gli effetti di un’integrazione a base di Lactobacillus casei Shirota (LcS) proprio sul sistema immunitario degli astronauti.
I nostri orizzonti però si stanno espandendo sempre più e l’approdo su Marte o, in generale, la pianificazione di missioni più lunghe sono sempre meno fantascienza. Come influisce il prolungarsi della permanenza nello spazio sul nostro corpo? Capirlo è stato lo scopo principale dell’ampio studio coordinato da Francine E. Garrett-Bakelman, della Weill Cornell Medicine, negli Stati Uniti, e pubblicato su Science.
Grazie al fondamentale supporto della NASA, svariati parametri clinici – massa corporea, stabilità genomica e metabolica e microbioma intestinale -, e psicologici – declino cognitivo – di un astronauta in orbita per 340 giorni sono stati analizzati e confrontati con quelli del suo gemello omozigote rimasto a Terra. I 317 campioni totali, raccolti rispettivamente prima della partenza, durante la missione e a un anno dal rientro, hanno permesso di collezionare e integrare un’importante mole e varietà di dati, dalla genomica alla psicologia all’analisi del microbioma, punto sul quale si concentra questo articolo.
Come cambia il microbioma gastro-intestinale nello spazio rispetto alla Terra
Attraverso il sequenziamento metagenomico di materiale fecale, è stato possibile monitorare i cambiamenti del microbioma gastrointestinale nel tempo e in relazione all’assenza di gravità con i seguenti risultati:
- 1364 dei 1641 taxa identificati a livello di genere sono stati registrati in entrambi i soggetti;
- il gemello “terrestre” ha mostrato una ricchezza di microbioma significativamente maggiore rispetto all’astronauta;
- non si è osservata alcuna differenza in termini di biodiversità (alpha-diversity, indice di Shannon) tra i due fratelli. I due profili batterici sono, invece, risultati ben distinti in termini di struttura (beta-diversity) con una maggiore omogeneità per quelli dell’astronauta. Un andamento simile è stato rilevato anche per le comunità virali e micotiche;
- i batteri dei phyla Firmicutes e Bacteroidetes (genere Bacteroides in particolare) hanno dimostrato di dominare il microbioma di entrambi i fratelli, coprendo oltre il 96% del totale delle sequenze identificate. Il quadro si completa con Actinobacteria e Proteobacteria, rispettivamente con l’1.97% e 1.27%;
- il rapporto di espressione Firmicutes/Bacteroidetes varia da 0.72 a 5.55 con, in generale, valori maggiori nei campioni collezionati dall’astronauta durante la missione;
- dallo 0.5% al 4.5% dei taxa batterici identificati nel microbioma dell’astronauta (36 specie, 13 generi, 8 famiglie, 4 ordini, 3 classi e 3 phyla) hanno fatto registrare un’abbondanza differente tra i campioni collezionati durante la missione e quelli della fase pre- e post-.
Caratteristiche funzionali sotto la lente
Alla caratterizzazione compositiva del microbioma è stata abbinata quella funzionale e metabolica:
- per l’astronauta, il contenuto dei geni funzionali durante la missione ha presentato notevoli differenze nella fase pre- e in quella post-volo, mentre questa variazione non si è verificata nel fratello;
- l’ambiente spaziale altera significativamente l’abbondanza di una moderata frazione di categorie di geni funzionali (2-23%). La stessa osservazione non si è verificata sulla Terra;
- i campioni dell’astronauta raccolti durante la missione hanno registrato una similarità leggermente maggiore rispetto a quelli del fratello a livello sia tassonomico sia di geni funzionali;
- alcuni dei metaboliti batterici identificati (fenoli, indoli, derivati di acidi biliari ecc.) che hanno mostrato attività anti-infiammatoria (acido propionico 3-indolo) hanno registrato valori inferiori nei campioni dell’astronauta durante tutto lo studio.
Come anticipato, però, lo studio oltre alla componente batterica ha analizzato molti altri parametri. Riassumendo gli altri risultati, l’assenza prolungata di gravità ha dimostrato di non influire nella maggior parte dei casi o, al più, di produrre un’alterazione significativa, ma transitoria. Oltre alla composizione del microbioma, infatti, la lunghezza dei telomeri, la regolazione genica, il peso corporeo, le dimensioni delle arterie carotidi, la struttura oculare e i livelli di metaboliti sierici hanno mostrato di ritornare nel range fisiologico entro sei mesi dalla missione. Le citochine infiammatorie, il network dei geni immunitari e la performance cognitiva, invece, risentono principalmente dello “stress” dovuto al ritorno sulla Terra.
Questo studio, per l’ampia gamma di variabili analizzate oltre che per la scrupolosa raccolta e analisi dei dati, oltre a rassicurare sulla fattibilità di missioni dalla durata leggermente superiore alla norma (340 giorni vs >300) si propone come una “guida” per la sicurezza degli astronauti nei prossimi voli, seppur da integrare via via con ulteriori informazioni.