La sclerosi multipla è una malattia autoimmune che comporta debolezza muscolare, cecità e persino la morte. Una nuova ricerca fornisce ulteriori prove di un legame tra questa condizione e il microbiota intestinale.
I risultati, pubblicati su Cell, fanno luce sui meccanismi attraverso i quali i batteri intestinali influenzano lo sviluppo e la progressione della malattia.
Un riferimento per gli studi futuri
«Questa ricerca sarà utilizzata come riferimento negli anni a venire», afferma l’autore senior dello studio Sergio Baranzini della University of California, che guida l’International Multiple Sclerosis Microbiome Study, un progetto internazionale che mira a comprendere il ruolo dei batteri intestinali nella sclerosi multipla.
Studi precedenti avevano già fornito alcuni dati in merito, ma queste ricerche erano in genere di piccole dimensioni e presentavano fattori confondenti, come il background genetico e la posizione geografica dei partecipanti.
Per aggirare queste limitazioni, Sergio Baranzini e i suoi colleghi hanno studiato il microbiota intestinale di oltre 1.100 persone, metà delle quali aveva la sclerosi multipla.
Pathway microbici nella sclerosi multipla
I ricercatori hanno reclutato più di 570 pazienti con sclerosi multipla da Stati Uniti, Regno Unito, Spagna e Argentina e hanno selezionato controlli sani geneticamente non correlati dalle stesse famiglie dei pazienti.
Quasi il 40% dei pazienti con sclerosi multipla non aveva ricevuto alcun trattamento. Rispetto alle persone sane, quelle con sclerosi multipla avevano livelli più elevati di Akkermansia muciniphila, Ruthenibacterium lactatiformans, Hungatella hathewayi ed Eisenbergiella tayi, nonché quantità ridotte di Faecalibacterium prausnitzii e Blautia.
Nelle persone con sclerosi multipla, i ricercatori hanno anche riscontrato alti livelli di geni microbici associati a processi biologici come l’infiammazione e il metabolismo delle fibre vegetali, i cui sottoprodotti sono spesso trovati ad alte concentrazioni in questi pazienti.
«Ora possiamo iniziare a ricostruire quali potenziali pathway sono attivi nei pazienti e nei controlli» afferma Sergio Baranzini.
I ricercatori hanno scoperto che i pazienti a cui è stato somministrato interferone-beta avevano concentrazioni di acidi grassi a catena corta più basse nelle feci e più elevate nel sangue rispetto ai pazienti non trattati.
È noto che gli acidi grassi a catena corta attenuano l’infiammazione: questi risultati suggeriscono quindi che l’attività terapeutica dell’interferone è in parte associata all’aumento del trasporto degli acidi grassi a catena corta dall’intestino al sangue.
Conclusioni
In futuro il team di ricercatori prevede di reclutare un maggior numero di pazienti e di seguirne alcuni per due anni per valutare la presenza di eventuali alterazioni del microbiota intestinale in risposta al trattamento, ai cambiamenti dello stile di vita e alla progressione della malattia.