Negli ultimi anni, numerosi gruppi di ricerca hanno dibattuto a lungo se l’utero e il feto umani fossero colonizzati o meno da batteri.
Una nuova analisi sembra risolvere il dibattito, dimostrando che gli studi a favore dell’esistenza di un microbiota fetale si basano su campioni in realtà contaminati.
I risultati, pubblicati su Nature, supportano l’ipotesi dell’“utero sterile” e possono fornire informazioni utili per evitare la contaminazione di campioni in cui si prevede che i microbi siano assenti o presenti a bassi livelli, come per esempio campioni di sangue e cervello.
Il microbiota inizia a formarsi al momento del parto
«Questo studio fornisce anche indicazioni per proseguire le ricerche in questo campo, in modo da concentrare gli sforzi dove saranno più efficaci», afferma Jens Walter, autore principale dello studio nonché ricercatore dell’University College di Cork, in Irlanda.
«Sapere che il feto si trova in un ambiente sterile» aggiunge «conferma che la colonizzazione da parte dei batteri avviene durante la nascita e nelle prime fasi della vita postnatale, ovvero i momenti sui quali dovrebbe essere focalizzata la ricerca terapeutica sulla modulazione del microbioma».
Contaminazione microbica dei campioni
Jens Walter e i suoi colleghi hanno esaminato quattro studi, pubblicati dal 2020, che suggerivano l’esistenza di un microbiota fetale.
Tre studi hanno raccolto campioni da feti nati per via vaginale dopo l’interruzione della gravidanza, mentre il quarto da bambini nati dopo un parto cesareo.
Due studi hanno rilevato microrganismi vivi, mentre gli altri due hanno rilevato solo metaboliti microbici o tracce di batteri, principalmente sulla pelle.
Ogni genere microbico rilevato nei campioni fetali nei due studi che sostenevano la colonizzazione microbica fetale è stato trovato anche nella maggior parte dei campioni di controllo.
Inoltre, nei feti nati con parto cesareo erano assenti i batteri solitamente presenti nella vagina e quelli rilevati erano diversi dai microrganismi identificati nei feti partoriti per via vaginale.
Questi risultati suggeriscono che il rilevamento di microbi nei tessuti fetali è dovuto a contaminazioni durante la raccolta dei campioni dall’utero o durante l’estrazione e il sequenziamento del DNA.
Un altro studio che ha valutato la possibile esistenza di un microbiota placentare ha rilevato batteri noti per dominare il microbiota vaginale, come Lactobacillus e Gardnerella.
Tuttavia, una volta tenuto conto della presenza di questi microbi e di quelli presenti nei reagenti di laboratorio, non sono emerse prove di un microbiota placentare.
«Gli studi che affermano la presenza di comunità microbiche vitali a bassa densità nell’intestino del nascituro e in altri organi fetali dovranno essere sottoposti a una valutazione del processo di campionamento», affermano i ricercatori.
L’utero sterile è sterile
Secondo i ricercatori la presenza di un microbiota fetale sfida i principi fondamentali della microbiologia immunologica e clinica.
Inoltre, i dati raccolti indicano che la maturazione immunitaria fetale e il priming non sono probabilmente indotti dalla colonizzazione microbica.
«Lo sviluppo immunitario fetale potrebbe essere guidato da componenti immunitari materni o frammenti microbici e metaboliti che attraversano la placenta, che ha il compito di proteggere il feto sterile da microrganismi vivi grazie a diversi meccanismi di difesa immunologica», spiegano gli studiosi.
L’esistenza di un microbiota fetale è anche in contrasto con la teoria degli animali germ-free. «La sterilità del feto è la base per la derivazione mediante isterectomia di mammiferi germ-free (principalmente topi e ratti, ma anche maiali e altre specie), che sono stati a lungo utilizzati per studiare l’impatto biochimico, metabolico e immunologico dei microrganismi sui loro ospiti».
Conclusioni
I dati emersi da questo studio supportano dunque l’ipotesi che l’utero sia un ambiente sterile.
«Sebbene sia impossibile confutare la presenza occasionale di microrganismi vivi in un feto umano sano, i dati disponibili non suggeriscono l’esistenza di colonizzatori stabili e abbondanti in circostanze normali e non patogene», affermano i ricercatori.