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Gravidanza: placenta e utero sono davvero ambienti sterili?

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Sono in costante aumento gli studi che confermano come il microbioma nei primi anni di vita sia non solo in divenire e altamente variabile ma anche fondamentale per la nostra salute negli anni futuri.

Parto naturale o cesareo, allattamento al seno o in formula, durata della gestazione, eventuale trattamento antibiotico della madre in gravidanza sono solo alcuni dei principali fattori ad esser coinvolti nella fase precoce del suo sviluppo.

Tutti questi punti sono verificabili solamente dopo la nascita che rappresenta la prima tappa per l’inizio della colonizzazione batterica nel nuovo nato. Ma è davvero così?

Inizia a prendere corpo l’ipotesi secondo cui l’inizio dello sviluppo del microbioma avvenga già a livello fetale con il passaggio di alcuni batteri “buoni” attraverso la placenta. Fino a una decina di anni fa si riteneva che l’utero fosse un ambiente sterile e che la placenta, più che uno strumento di interazione vero e proprio, fosse una barriera per la prevenzione di eventuali infezioni.

Nonostante le nuove evidenze, controcorrente rispetto al pensiero attuale, siano poche e fortemente dibattute, una loro conferma andrebbe a modificare i capisaldi dell’embriologia umana. Di fronte a questa presunta sensazionale scoperta però occorre andarci cauti.

Per delineare un quadro quanto più completo possibile, prendendo come spunto un lavoro pubblicato su Nature ad opera di Cassandra Willyard, sono riportati di seguito i principali studi pro e contro l’ipotesi presentata.

I batteri colonizzano il corpo già durante la gravidanza?

Indira Mysorekar e colleghi hanno sollevato la questione per la prima volta nel 2013 collezionando circa 200 campioni di placenta tramite biopsia e riscontrando in circa un terzo di loro della componente batterica. La durata della gestazione non sembrerebbe essere in questo caso un fattore discriminante dato che i campioni provenivano sia da donne con gravidanza a termine che pre-termine. Questo ha fatto supporre ai ricercatori come i primi batteri colonizzatori non siano affatto patogeni ma commensali.

L’anno seguente il gruppo di Kjersti Aagaard ha confermato la non sterilità dell’utero registrando del DNA batterico riconducibile a Escherichia coli, Prevotella tannerae e alcune specie non patogene di Nesseria. Complessivamente il profilo microbico riscontrato a livello di placenta è risultato molto simile a quello orale, probabilmente a causa della traslocazione batterica attraverso il torrente circolatorio. Una delle principali limitazioni di questo studio, aspetto ampiamente sottolineato dai suoi oppositori, è tuttavia la scarsità del DNA effettivamente trovato, appena 0.002 mg ogni grammo di tessuto placentare esaminato.

Continuando le ricerche sul DNA batterico, l’americano Josef Neu ne ha trovato traccia nel meconio, ovvero il primo campione di feci che si forma durante la gestazione. I batteri osservati (Enterobacter, Enterococcus, Lactobacillus, Photorhabdus e Tannerella) sono stati inoltre negativamente associati alla durata gestazionale, a un incremento di risposta infiammatoria e a una conseguente nascita pre-termine.

Da ultimo, è del 2016 lo studio di Maria Carmen Collado et al. attraverso il quale è stato dimostrato come sia la placenta che il fluido amniotico presentino specie batteriche, soprattutto appartenenti ai Proteobacteria, seppur con basso grado di biodiversità e ricchezza. Per evitare la contaminazione con il tratto vaginale della madre sono stati prelevati campioni solo da parti cesarei a termine.

Pareri discordanti

Tra i maggiori oppositori di una colonizzazione batterica intra-uterina troviamo Samuel Parry e Abigail P. Lauder i quali hanno condotto, con il loro team, uno studio per verificare se le tracce batteriche registrate ad esempio da J. Neu e K. Aargard fossero realmente la prova di un microbiota allo stadio iniziale o se fossero solamente contaminanti provenienti dal kit usato per l’estrazione del DNA o da altre fonti esterne. I risultati ottenuti mostrano come non sia possibile distinguere con esattezza la provenienza dei batteri, potrebbero perciò derivare sia dalla strumentazione sia esser già in loco al momento dell’analisi e quindi appartenere al feto.

Secondo Maria Dominguez-Bello inoltre, nessuno studio condotto sul meconio offre risultati abbastanza convincenti sostenendo come la sterilità in utero sia plausibile e termini con la rottura del sacco amniotico. Sempre secondo la dottoressa, facendo riferimento a esperimenti in vivo, è possibile annullare completamente la componente batterica ed è ciò che avviene negli studi con topi germ-free, sottratti alla madre e allevati in sterilità. Se il microbiota iniziasse il suo sviluppo durante la gravidanza tutti questi esperimenti non sarebbero possibili.

Il dibattito rimane dunque ancora acceso e in attesa di nuove conferme, in un senso o nell’altro. Molte potrebbero essere comunque i risvolti se l’ipotesi di un microbiota pre-natale fosse confermata alla luce delle svariate potenzialità che questo dimostra dopo la nascita.

Fonte: C. Willyard: Could baby’s first bacteria take root before birth? Nature (2018)

Silvia Radrezza
Laureata in Farmacia presso l’Univ. degli Studi di Ferrara, consegue un Master di 1° livello in Ricerca Clinica all’ Univ. degli Studi di Milano. Borsista all’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS dal 2017 al 2018, è ora post-doc presso Max Planck Institute of Molecular Cell Biology and Genetics a Dresda (Germania).

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