I reperti archeologici sono tutt’altro che semplici oggetti descrittivi di usi e costumi passati. Grazie al crescente progresso tecnologico in campo bioanalitico, numerose sono infatti le informazioni genetiche che possiamo ottenere, anche a proposito del microbioma.
Ne offre un esempio lo studio di Theis Z.T. Jensen e colleghi della University of Copenhagen pubblicato di recente su Nature Communications e basato su un approccio genomico di un reperto di catrame di betulla masticato (probabilmente usato come antisettico data la presenza del betulina) risalente al tardo mesolitico/neolitico (5.700 anni fa).
Sequenziando il DNA e confrontandolo con gli opportuni database è emerso che:
- il DNA umano è presente in elevate quantità ed è comparabile a quello ritrovato in campioni di denti/ossa ben conservate dello stesso periodo storico
- sulla base della mappatura cromosomiale (X e Y) e fenotipica, l’individuo che l’ha masticato era una donna di pelle scura, occhi blu e nel complesso geneticamente affine alla popolazione dell’Europa occidentale
- oltre a quello umano, è stato rilevato DNA batterico di microrganismi che risiedono per la maggior parte nel cavo orale (Neisseria subflava, Rothia mucillginosa, Porphyromonas gingivalis, Tannerella forsythia ecc.). Si aggiungono poi il virus Epstein-Barr e streptococchi, S. viridans e S. pneumoniae in particolare, quest’ultimo caratterizzato da 26 fattori virulenti (polisaccaridi capsulare, enolasi, antigene superficiale A ecc.)
- il restante DNA è risultato appartenente a due specie di piante, Betula pensula e Corylus avellana. Presente infine anche il genoma dell’anitra selvatica (Anas platyrhynchos) con la quale l’individuo è probabilmente entrato in contatto poco prima della masticazione del catrame di betulla.
Questo studio suggerisce dunque come siano ancora molte le informazioni ricavabili dai reperti archeologici sia in relazione al nostro passato genetico sia a quello dei batteri commensali, conoscenze utili nell’approfondimento dell’evoluzione umana.
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